domenica 30 marzo 2025

Le gialliste italiane si vendono bene per i motivi sbagliati: Miss Bee

 Poi mi domandano perché non leggo la narrativa mistery scritta nel mio paese...

Miss Bee è esemplificativa in questo.


Alice Basso e Alessia Gazzola sono autrici prolifiche e apprezzate nello Stivale per la loro penna e i loro costrutti polizieschi, ma mentre con la prima avevo avuto esperienza con la serie della gosthwriter, che ho già stroncato su questo blog per la protagonista odiosa, la dubbia risoluzione delle indagini mediante intuizioni e il logoro meccanismo del triangolo amoroso al centro del quale sta l'investigatrice in erba, non mi ero ancora scontrata con Gazzola.

Ho rimediato.

Se queste autrici rappresentano il meglio che la letteratura commerciale crime ha da offrire in questo paese, poveri noi.

Attirata dalle prime recensioni positive lette, dalla copertina deliziosa e dall'accostamento del genere giallo cozy (quanto mai in auge in questo momento) al romance sbarazzino alla Bridgerton (idem come per il suddetto giallo cozy e non credo che il riferimento all'ape sia casuale, anche se il periodo storico è quello di Downton Abbey), mi sono fatta regalare per Natale questo romanzo.

Le prime pagine rivelano subito una scrittura prolissa, didascalica fino alla nausea (e per me il giudizio sulla penna di Gazzola era già formato). La protagonista della serie, Beatrice Bernabò, è una ventenne borghese fiorentina trapiantata a Londra per motivi familiari e politici del padre (siamo negli anni Venti del Novecento). Secondogenita geniale ma incompresa (allo studio preferisce fare paralumi) ha una cotta per il vicino di casa, Christopher (Kit). A una delle innumerevoli cene aristocratiche indette dalla madre di Kit salta fuori il morto (cause naturali? omicidio? incidente finito male -cosa che manderebbe in bestia un lettore di gialli...lo dico così, per dire-?).

A questo punto Beatrice comincia a fare cose, fondamentalmente lagnarsi dei suoi problemi e farsi affascinare dagli uomini (e dalle donne), attività importante perché il suo metodo nel risolvere crimini si basa sostanzialmente nel chiedere agli spasimanti "Mi dite com'è andata? Grazie, gentilissimi."

Questa totale mancanza di rispetto per il lettore di gialli è il motivo principale del mio astio nei confronti del romanzo: lunghi spiegoni dei personaggi e intuizioni della detective dilettante, senza indizi, senza interrogatori che mettano alla luce incongruenze rivelate dai sospetti, senza sostanzialmente nessun talento del segugio. Peggio ancora, il lettore di gialli individua subito il più marchiano errore commesso da tutti gli investigatori, ufficiali e non, di questa storia (ed è subito Dicker), vanificando quello che forse era il tentativo di plot twist dell'autrice, anzi aspettandola proprio al varco: non considerare tutti i presenti alla cena dei sospetti e focalizzare arbitrariamente i sospetti solo su alcuni.

Il terzo motivo è il triangolo amoroso: non ne posso più di questo espediente narrativo per agganciare il malcapitato lettore alla serialità. In questo preciso caso non si tratta neppure di un triangolo, ma di un quadrato!!! E non conto la breve virata LGBTQ solo perché, per ragioni storico-sociali, non dovrebbe dare origine a un corteggiamento, altrimenti ci troveremmo di fronte a un pentagono.

I personaggi sono approfonditi pochissimo: dalla protagonista ai personaggi minori dei familiari (sorelle, padre, etc).

Bee è contraddistinta principalmente dal suo status sentimentale ed è il classico prototipo moderno di ragazza che non si arrende di fronte alla società maschilista che vuole decidere per lei, ma è un ritratto senza spessore. I due spasimanti maschili che hanno maggior spazio sono pressoché identici: all'apparenza cattivi ragazzi, sotto sotto nascondono dei buoni sentimenti. Il visconte Julian è anche il mezzo per tirare in ballo le difficoltà dell'antica nobiltà inglese di far fronte alle tenute sempre meno redditizie dopo la Grande Guerra. Il livello di approfondimento è tale (così come per qualunque altro tema sociale) che credo l'argomento compaia solo per fare riferimento a Downton Abbey.

Non è stato ancora presentato come corteggiatore ufficiale l'ispettore Archer, ma la scrittrice ci ha già cominciato a girare intorno e un lettore anche minimamente avvezzo a queste dinamiche (e io forse lo sono anche meno) annusa subito l'aria che tira (e si rende anche subito conto di quale è l'estrazione sociale dei vari membri del poligono, di quale è il vero bravo ragazzo e può indovinare fin da subito come andrà a finire).

Giudizio: visto come un mero romance sarebbe quasi passabile, ma la scrittura è comunque approssimativa e pigra, con personaggi piatti, dinamiche abbastanza trite e prevedibili; come giallo è semplicemente inqualificabile (impensabile accostarci il nome di Agatha Christie, nemmeno per la pubblicità). ⭐⭐

Il celebre scontro fra il ladro gentiluomo parigino e il segugio di Baker Street

 Maurice Leblanc ha scritto e pubblicato per il primo trentennio del Novecento numerosi racconti e romanzi con protagonista il ladro gentiluomo Arsène Lupin, tornato recentemente alla ribalta anche tra il pubblico mainstream per la serie Netflix che ha per protagonista Omar Sy e noto anche per aver ispirato a Monkey Punch Lupin III.


Non ho ancora letto opere con protagonista Lupin in solitaria, ma non ho saputo resistere al crossover in cui l'autore francese ha fatto incontrare al suo eroe noir l'investigatore per antonomasia, la creatura di Sir Arthur Conan Doyle: Sherlock Holmes...

...con un piccolo adattamento. Leblanc non ottenne il permesso di Doyle per utilizzare il suo personaggio e dovette storpiarne il nome in Herlock Sholmes, così come quello di Watson fu mutato in Wilson.

Non solo: il detective differisce anche nel comportamento e nel carattere. I suoi tratti sono estremizzati per renderli caricaturali, sembra quasi sempre sotto scacco e non brilla per acume come l'originale. Anche se non si arrende davanti al confronto col rivale parigino, le prende sonoramente e ci fa brutta figura. Al termine dei due racconti della raccolta (Feltrinelli, 272 pag) si arriva sempre al pareggio, con ciascuno dei due personaggi che ottiene un parziale successo e un parziale insuccesso, come in un patteggiamento, ma in realtà il lustro è maggiore per Lupin, che appare sempre più furbo e dalle vedute più lungimiranti.

Anche Watson risente molto della trasformazione in Wilson: diviene un personaggio comico e quasi grottesco, che lo rende il principale ma non unico elemento di divertimento della narrazione. Ho riso anche troppo e non so se più per le situazioni ridicole o per lo snaturamento del nobile dottore londinese.

Il primo racconto, La dama bionda, è più lungo e narra il primo incontro fra gentiluomini: ha una trama piuttosto strutturata, molti personaggi e più casi che si intersecano, accomunati solo dalle sparizioni di una donna misteriosa che appare ovunque Lupin abbia messo lo zampino. Mentre l'ispettore Ganimard arranca, le vittime dell'antieroe si affidano a Sholmes e il gioco ha inizio.

Il secondo racconto, La lampada ebraica, è breve e si incentra su un "furto della camera chiusa".

Lo stile di Leblanc è molto scorrevole e avvincente e la lettura costituisce un intrattenimento molto gradevole.

Giudizio: ⭐⭐⭐⭐