martedì 2 gennaio 2024

Com'è difficile recensire Moby Dick di Herman Melville

 Il celebre libro sulla famigerata balena bianca che turbava la mente dell'altrettanto famoso capitano Achab, interpretato da Gregory Peck nel film di John Huston del 1956 (adattato dal romanzo nientemeno che da Ray Bradbury), è citato continuamente in libri, film e telefilm.


Me lo sono ritrovata guardando The Whale e Una mamma per amica, quando Rory prende l'incipit per descrivere un suo bisogno di evasione, e, curiosamente, perfino mentre, in parallelo proprio a Moby Dick, stavo leggendo anche Il cardellino, quando Theo cita i tre ramponieri del Pequod.

Si tratta di uno dei primi grandi romanzi americani: Melville ne pubblicò due diverse versioni, una in Inghilterra e una negli USA, nel 1951. Mi domando se sia questo il motivo per il quale il libro è così celebrato dagli statunitensi, ovvero perché prima di Moby Dick c'era ben poco da accludere nella propria letteratura, dato che sono una nazione molto giovane, nata da appena 75 anni al momento della pubblicazione dell'opera.

Frecciatine a parte, è bene chiarire subito un punto: Moby Dick non è propriamente un romanzo d'avventura. È un saggio sulla pesca delle balene in cui ogni tanto c'è una digressione narrativa, un pezzetto della storia che serve come scusa per parlare di balene, baleniere, armi e metodi con cui si uccidono, si squartano e si usano le balene, orrendi dettagli compresi, e non il contrario.

Se qualcuno vi ha detto che Moby Dick è la storia dell'ossessione di Achab per la sua bianca nemesi con alcune digressioni un po' noiose e prolisse, non credetegli. Achab si vede poco, ma Moby Dick ancora meno, anche se la sua assenza è costantemente presente per i personaggi. È Melville per qualche ragione ossessionato con le balene: forse da bambino se non si comportava bene lo minacciavano di farlo mangiare a un capodoglio? Non lo so, ma di certo ogni dettaglio che le riguardasse, anche palesemente non corretto dal punto di vista scientifico, (no, Herman, non sono pesci e i tuoi contemporanei lo sapevano benissimo, ma te sei uno zuccone evidentemente), ce l'ha voluto raccontare.

La storia inizia da Ismaele, che è un personaggio reale soltanto nei primi capitoli, quelli che precedono la partenza del Pequod, dopodiché diventa esclusivamente cronista di quel che accade sulla nave e non parla praticamente più di quel che fa lui a bordo.

Ismaele si reca prima a New Bedford, dove incontra un personaggio straordinario, il ramponiere e cannibale Queequeg, di cui diviene amico. I due si dirigono poi a Nantucket, dove si imbarcano sul Pequod, una baleniera capitanata dal misterioso Achab, che nell'ultimo viaggio ha perso una gamba, strappatagli da una balena che l'uomo descriverà come dotata di raziocinio e capacità di pianificare attacchi mirati a uccidere i suoi cacciatori: un mostro dalla gobba bianca, dalla fronte rugosa, con molti arpioni piantati nel corpo, tra cui i suoi. Il viaggio di Achab, personaggio straordinario, dalla tempra inossidabile, è votato unicamente a trovare e a uccidere quel capodoglio, che alcuni chiamano Moby Dick. L'uomo è ossessionato dalla balena e trascinerà tutto l'equipaggio della nave nella sua folle caccia, votata, come il suo rampone bagnato nel sangue dei ramponieri (in un passaggio bellissimo del capitolo 113), al diavolo.


Nell'epoca in cui Melville scrive, la balena era ritenuta nient'altro che una creatura mostruosa e una fonte di olio da lampade o, al più, di carne. Non stupisce, quindi, che particolari agghiaccianti della fine di questi grandi cetacei, comprese uccisioni vane, o frasi come

"Perché in quei momenti vi trovate intorno più balene di quante possiate ammazzarne in una volta. Ma i capodogli non si incontrano tutti i giorni; se accade che ne incontriate, allora dovete ucciderne quanti più potete. E se non potete ucciderli tutti subito, dovete ferirli, in modo da poterli uccidere poi a comodo vostro."

che sono perfettamente normali per la sensibilità dell'epoca, risultino, però, abbastanza ostiche per la nostra.

Inoltre si tratta di un epoca razzista e forse dipende da questo che la creazione di un personaggio come Queequeg, che viene dotato di ascendenze reali e modi eroici, non esiti poi in niente più: il fatto che sia pagano e di una etnia che per i bianchi statunitensi era solo "di selvaggi" comporta che il suo ciclo narrativo venga abbandonato? Oppure Melville era superiore all'ideologia del suo tempo, ma la storia del portentoso Queequeg è sacrificata, come tutto il resto, alla furiosa grandezza di Achab?

Mi resta questo dubbio, anche se il finale mi ha sbilanciata verso la seconda ipotesi, ma non posso che accontentarmi delle ultime parole del capitolo 110.

Più o meno da quel capitolo, il romanzo cambia sensibilmente: giunge verso la conclusione e, dunque. il suo culmine. Entra in scena il dramma di Achab. Finalmente si prende la scena in modo pieno e alcuni capitoli, come il 123, il 128, il 129 e forse soprattutto il 132, sono veramente stupendi. In queste poche pagine, che forse valgono la fatica di averle cercate in tutte le altre, è raccontato in modo struggente fino a che punto la follia di Achab lo ha reso cieco a tutto e tutti e come la conclusione della storia fosse già disegnata e impossibile da modificare: un fato già segnato dal suo desiderio di vendetta.

Per questi sei capitoletti che ho adorato e che mi hanno emozionata, ci sono, però, nei primi tre quarti del libro, non meno di una trentina di capitoli veramente poco attinenti alla storia: si tratta dei capitoli che raccontano della classificazione delle balene o delle parti della baleniera o delle lance. Inoltre, prima della partenza del Pequod, molti capitoli sono destinati alle profezie bibliche sulle sorti del viaggio o alla messa, quella a New Bedford di Padre Mapple, interpretato nientemeno che da Orson Welles nel film di Houston.

Se non bastassero questi capitoli interamente dedicati a temi non inerenti la storia (oppure sì, è il caso dei riferimenti biblici, ma c'è comunque un abuso di metafore), anche nei momenti di racconto, Melville è prolisso, usa similitudini ogni pagina, e compie digressioni continue. Molti racconti sono interrotti da una precisazione, uno spiegone o un cambio di discorso. È plateale il caso del racconto del Town-Ho, in cui Melville abbandona la narrazione nel punto più interessante e succoso e si mette a parlare di canalesi e altro per più di una pagina, prima di tornare alla storia.

I dialoghi sono spesso incomprensibili o conditi da battute grezze (benedetti americani). Tutti quelli tra i marinai e spesso anche quelli degli ufficiali non mi piacciono e non mi divertono.

Ho letto il libro sulla traduzione di Pietro Meneghelli per Newton Compton Editori, ma alcuni capitoli li ho affrontati grazie all'audiolibro letto da Piero Baldini (che ha realizzato un'eccellente lettura) nella traduzione di Alberto Rossatti per Il narratore. Nessuna delle due traduzioni è malvagia, ma forse sarebbe interessante leggere quella storica di Cesare Pavese o quella di Ottavio Fatica per Einaudi, per vedere se i dialoghi migliorano. Sicuramente la lettura sull'edizione Mammut ha aggiunto fatica all'impresa a causa della ben nota compattazione grafica, che infatti impiega solo 474 pagine.

In ogni caso non sono tanto sicura di cimentarmi una seconda volta nella lettura, se non forse di qualche riduzione o di una breve selezione di capitoli, perché è stato faticoso, noioso e spesso ho saltato paragrafi e pure qualche capitolo.

Tuttavia non posso negare che il fulcro dell'opera è struggente, tormentato e bellissimo. In mezzo alle chiacchere, agli sproloqui e alla saggistica, Melville ha creato uno scontro immortale e non tanto tra un uomo e il suo nemico che soffia spuma, ma tra un uomo e sé stesso: qualcosa di meraviglioso, che strappa più di una lacrima.

Giudizio: devo dividerlo a metà, perché prendendolo nel complesso, in un unico giudizio, non sarei giusta con nessuna delle parti. Ho odiato la parte di "saggistica" a cui forse da sola non darei due stelle, ma mi sono piaciute le parte raccontate (l'incontro tra Ismaele e Queequeg, il racconto -per quanto interrotto- del Town-Ho, la storia della Rachele) e ho amato i capitoli già menzionati, a cui ne darei non meno di quattro. Vale la pena affrontare tutta l'opera per quel pugnello di pagine?

Non lo so, forse dovreste avere la pazienza di provare come me e decidere da soli, oppure seguire il consiglio che mi diede mia sorella (e che non ho seguito) di leggerlo in riduzione. Aveva ragione che non ci avrei perso nulla, ma io volevo scoprirlo da me.

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