martedì 19 marzo 2024

Approfondendo Italo Calvino: le Lezioni Americane e Calvino Pop

Uscendo dalle letture dei racconti e dei romanzi, ho cercato di addentrarmi nella scrittura e nella personalità di Calvino attraverso due libriccini di taglio differente.

Le Lezioni Americane sono una serie di conferenze che l'autore avrebbe dovuto tenere tra il 1985 e il 1986 ad Harvard. Calvino mori, però, il 19 settembre di quell'anno accademico che doveva vederlo negli USA.

Secondo la figlia, che scrive la prefazione di questa raccolta dei manoscritti preparatori, l'autore aveva pensato a materiale per otto lezioni, anche se le tradizionali Charles Eliot Norton Poetry Lectures sono sei. Nel volume edito da Mondadori, in realtà, ci sono cinque conferenze pronte e una lezione provvisoria, ma completa, che doveva essere intitolata Consistency ed essere probabilmente la prima, seguita da Molteplicità. In realtà le cinque conferenze definitive, sarebbero state:

  1. Leggerezza (a questo riguardo, smontiamo una bufala: la famosa frase sulla leggerezza, attribuita a Calvino, non è dell'autore e non è in questi testi)
  2. Rapidità
  3. Esattezza
  4. Visibilità
  5. Molteplicità.
L'ultima bozza, praticamente completa, è pubblicata in Appendice, intitolata Cominciare e finire, revisionando, infatti, una serie di incipit e conclusioni di romanzi famosi.

Compiendo un excursus della letteratura (prima che scrittore, lettore accanito, dai miti greci e Ovidio a Flaubert e Dickinson) e della filosofia, portando, quindi, esempi a sostegno delle proprie tesi, Calvino elenca una serie di caratteristiche che vorrebbe venissero preservate e portate avanti nella letteratura del nuovo millennio. 

In effetti, è l'esposizione della sua idea di letteratura, che queste caratteristiche rendono estremamente moderna.

Oltre a esempi letterari, Calvino ci mette del suo e racconta la genesi delle sue opere o spiega perché più spesso ha scritto racconti che romanzi, nell'urgenza di dare spazio e vita a più punti di vista, più storie diverse. Creatore fin da bambino, ci svela anche un aneddoto che mi è piaciuto tantissimo: prima ancora di saper leggere, Calvino creava dialoghi immaginari e storie fantastiche sui fumetti pubblicati sul celebre Corriere dei Piccoli, all'epoca tradotti dall'americano, eliminando i balloons e inserendo alcune righe inventate ad arte.

Giudizio: filosofico, ma interessante ⭐⭐⭐


Calvino Pop
, invece, è un libricino di Progredit Editore, scritto da Trifone Gargano e illustrato da Carlo Volsa. In sei capitoli, sono trattati diversi aspetti meno conosciuti della carriera di Italo Calvino: curatore di un'antologia scolastica, cronista sportivo (a suo modo), compositore di testi per canzoni.

Una cosa molto carina, secondo me, è stata anche l'aver inserito, oltre a spezzoni di articoli e citazioni, i QR code che rimandano a canzoni o altro materiale extra.

Il libro è piccolissimo (meno di cento pagine) e alcuni argomenti sono a volte ripetuti (questo un poco mi è sembrato un riempitivo), ma è stato delizioso per conoscere tutta una serie di aspetti, per me, inediti dello scrittore italiano.

Giudizio: una chicca ⭐⭐⭐⭐

sabato 9 marzo 2024

Rileggere Il buio oltre la siepe vent'anni dopo

 Alle scuole medie ho avuto una professoressa di italiano molto attenta ai temi dell'uguaglianza e della pace e questa sensibilità è stata trasferita nel programma scolastico. Mi pare che quella lezione settimanale si chiamasse narrativa e, se al primo anno verteva sulla mitologia greca, al terzo anno, addirittura, proponeva un saggio piuttosto impegnativo per dei tredicenni, Il razzismo spiegato a mia figlia di Tahr Ben Jelloun; nel mezzo c'è stato Il buio oltre la siepe (1960), che per temi si eleva molto, pur possedendo la scorrevolezza di un testo narrativo.

Queste due caratteristiche le ho ritrovate, come le ricordavo, anche oggi. Ai tempi si trattò di una versione ridotta, che possiedo ancora e che conservo con grande affetto, perché quella lettura mi piacque moltissimo. Ventuno anni dopo, con la storia che era molto sfumata nel mio ricordo, ma con quelle impressioni ancora ben vive nella mia mente, ne ho ripreso la lettura, stavolta su un'edizione integrale Feltrinelli, regalo di mia sorella.


Quella targa nella foto mi è piaciuta appena l'ho vista, per il gioco di parole che opera col titolo di questo libro. Il titolo in italiano, infatti, è interamente opera dei traduttori e fa riferimento al pregiudizio che i due piccoli Finch nutrono per il loro vicino di casa, ma il titolo originale è To kill a mockingbird, frase che viene ripresa più volte nel romanzo, riferendosi a personaggi e situazioni diverse, e con più significati.

"Sparate finché volete alle ghiandaie, se vi riesce di prenderle, ma ricordatevi che è un peccato uccidere un merlo. [...] I merli non fanno niente di speciale, ma fa piacere sentirli cinguettare. Non mangiano le sementi dei giardini, non fanno il nido nelle madie, non fanno proprio di niente, cinguettano soltanto. Per questo è un peccato uccidere un merlo."

Si è trattato, in parte, di una riscoperta, proprio in virtù di certe parti che avevo scordato; in parte è stato un riconsolidare qualcosa. Per esempio ricordavo piuttosto bene sia il processo, sia la parte finale, dunque le due parti più dure del romanzo.

La storia, che valse il premio Pulitzer alla scrittrice americana Harper Lee, amica e collaboratrice di Truman Capote, è narrata dal punto di vista dei figli dell'avvocato Atticus Finch, in particolare della secondogenita Scout. Orfani di madre, tirati su dal padre, che cerca di educarli secondo i suoi principi, e dalla domestica di colore, Calpurnia, Scout e Jem trascorrono gli inverni a scuola e le estati a cercare di scoprire chi è il misterioso vicino di casa che non sono mai riusciti a vedere, finché un caso di cronaca non fa capolino nella loro vita, mettendola un po' in subbuglio.

Atticus Finch, il cui ritratto in negativo, ossia ricavato dalle testimonianze della figlia, restituisce uno dei personaggi della letteratura più sensibili, retti, coraggiosi e compositi mai scritti, è l'avvocato che difenderà una persona di colore dall'accusa di violenza carnale ai danni di una ragazza di poverissima classe sociale. La costruzione della vicenda e delle motivazioni delle parti in gioco, che ruotano attorno al fatto e al processo, è magistrale: avvalendosi del punto di vista, semplice e ingenuo, di una bambina, la descrizione del contesto sociale e delle ripercussioni di quanto accade è elementare e chiaro. Scout, naturalmente, non comprende bene ogni sfaccettatura della vicenda ed è proprio l'emergere delle sue domande e delle risposte, che si dà o che riceve, che ci permettono di entrare nel merito e di sviscerare ogni lato del problema in modo efficace e approfondito.

Ne risulta un lavoro che, da una parte espone dei problemi sociali dagli opposti punti di vista, dall'altra ha il tono leggero di un bambino che si pone questi problemi per la prima volta, con sguardo smaliziato. L'interiorizzazione da parte di Scout di quello che sente dire intorno a lei, da parte di adulti e bambini, ci restituisce un contraddittorio, che evidenzia le ipocrisie e le idee più retrograde, ma anche quelle più nobili. Ci sono molti personaggi (e ben caratterizzati) ne Il buio oltre la siepe, ognuno in grado di arricchire la storia del proprio punto di vista.

Il romanzo, inoltre, non affronta solo la storia di Tim Robbins, che qui personifica i giovani afroamericani che, davvero, furono ingiustamente accusati nel caso degli Scottsboro Boys nel 1931. Jem, per esempio, è protagonista di un altro momento della storia non meno toccante e bello; anche Scout alle prese con la scuola rappresenta una situazione molto interessante.

Dunque non solo il tema del razzismo, anche se questo occupa chiaramente tanto spazio, è affrontato in questo romanzo; la famiglia protagonista e i loro amici più vicini sono progressisti e hanno idee molto simili alle nostre; naturalmente, però, il resto delle persone che li circondano non lo sono affatto e questo condiziona quello che succede, ma anche le idee di Scout, spugna, come tutti i bambini, delle espressioni che sente dire. Fortunatamente il suo ristretto nucleo familiare e lo scontrarsi con evidenze diverse la spingono a riflettere e a maturare opinioni via via più strutturate. Non solo stereotipi di etnia compaiono in questo contesto, ma anche di classe. di genere e il pregiudizio e le idee preconcette in generale.

La scrittura è davvero efficace e affronta in profondità temi complessi, senza perdere di vista la piacevolezza del racconto, che si legge in modo veramente scorrevole.

Adesso mi rimane solo da vedere il film, adattamento del 1962, appena due anni dopo l'uscita del libro. Il film, diretto da Robert Mulligan, fu candidato a otto premi Oscar e il ruolo di Atticus valse il premio di migliore attore a Gregory Peck (un po' troppo bello, forse, per interpretare l'avvocato, per come lo leggiamo nell'originale, ma del resto Peck vestì anche i panni di Achab). Gli altri due premi che la pellicola vinse furono la sceneggiatura e la scenografia.

Giudizio: ⭐⭐⭐⭐⭐

mercoledì 6 marzo 2024

La pietra di Luna di Wilkie Collins è uno dei migliori romanzi gialli della storia?

 Per anni, affiancato a L'assassinio di Roger Acroyd e altri romanzi della Christie, ho trovato La pietra di Luna in tutte le classifiche dei migliori gialli di sempre.


Il bicentenario della nascita dell'autore, Wilkie Collins, ha portato con sé la nuova edizione di Fazi di tre romanzi dell'inglese: La donna in bianco, Senza nome e, per l'appunto, La pietra di Luna. Le copertine mi piacevano molto e ho acquistato il primo e il terzo. Arrivata alla lettura, mi sono, però, accorta di almeno un problema in questa edizione: l'assenza di un sommario. Inoltre, almeno ne La pietra di Luna non c'è una bella prefazione che racconti un po' della genesi del libro, del contesto, dello scrittore, etc. Ci sono due introduzioni alle edizioni, direttamente scritte dallo stesso Collins, e basta.

Il romanzo è uscito, come molti dell'epoca, a puntate, su All the Year Round e ha visto la pubblicazione definitiva nel 1868. Collins e l'amico Charles Dickens (col quale collaborava) si ritrovarono interessati a un nuovo fenomeno dell'epoca: l'avvento del detective in borghese. Entrambi ispirati al caso molto controverso dell'omicidio di Road Hill House, un caso di cronaca orribile, che mise in difficoltà anche il grande ispettore dell'epoca, Jonathan Whicher, scrivono due romanzi in merito. Alla figura di Witcher si ispirano, rispettivamente, Charles Dickens per l'ispettore Bucket di Casa Desolata (1852-53) e Collins per l'ispettore Cuff; non ho ancora letto Casa Desolata, ma almeno Collins si ispira anche ad alcuni elemento del caso vero e proprio, come ciò che succede intorno a una certa camicia da notte e a cosa combina l'ispettore in questione. Vista la precocità delle opere - La donna in bianco è del 1859 - e lo specializzarsi in questo genere di narrativa, Collins è sempre stato considerato il padre del mistery classico, preceduto solo da Poe, sebbene oltreoceano e con una produzione diversa (racconti).

Ma, eccoci finalmente alla lettura, tanto agognata, tanto aspettata. Di cosa parla l'opera?

Il mistery ruota intorno a un diamante indiano, rubato ai suoi devoti proprietari nel 1799, per poi comparire nella vita della famiglia Verinder. Tre misteriose figure indiane girano intorno alla casa di Lady Verinder, quando il nipote, Franklin Blake, consegna alla cugina Rachel Verinder l'enorme diamante, la pietra di Luna. Cosa capiterà mai alla pietra? Chiaramente scomparirà, ovvio! L'ispettore Cuff, chiamato a indagare sulla vicenda, riuscirà a far luce?

Ci vorranno 595 pagine per scoprire dov'è andato a finire il diamante e me le sono godute tutte quante.

La scrittura è piacevole e presenta molte delle caratteristiche degli scritti di quel periodo: il racconto, sempre in prima persona, fornito da più testimoni (come per esempio in Dracula), le lunghe spiegazioni dei personaggi, per raccontare fatti avvenuti in passato, la prolissità stessa (che, però, non annoia mai) del racconto, che occorre per soddisfare le esigenze della pubblicazione a puntate.

Il romanzo è quasi corale: non ha un solo protagonista e il racconto è svolto proprio da più personaggi: il capo della servitù, l'ispettore, parenti e conoscenti dei personaggi principali.

I personaggi sono caratterizzati con grande dettaglio, tanto da affezionarcisi molto. Ho adorato la parte della storia di Ezra Jennings, personaggio secondario, che salterà fuori solo verso la fine, per svolgere un ruolo molto importante. Jennings e Cuff sono, sicuramente, i miei personaggi preferiti, ma anche il buon Betteredge, il capo dei domestici di Lady Verinder, ha il suo perché. Miss Verinder è invece detestabile; Miss Clack, invece, è una macchietta, il cui racconto, tuttavia, è molto divertente (e come ci dice l'autore) uno dei preferiti dal pubblico, malgrado lo avesse scritto, forzatamente, in preda a un attacco di gotta.

Attraverso questa serie di testimonianze, il percorso della pietra, piano piano, emerge, ma non prima dei colpi di scena finali. A livello di schema giallo, non posso dire di essere stata sconvolta dall'originalità (sebbene allora sicuramente ci fosse): la soluzione al caso è abbastanza lineare. Inoltre, a me è sembrato soprattutto un romanzo quasi d'avventura (intendendo l'avventura scientifica che capita a Blake, ma anche i pedinamenti sulla spiaggia) e, persino, romantico (del resto, la storia sentimentale c'è, occupa un discreto spazio e c'è anche una scena che ho trovato piuttosto bella). Tutto queste influenze, più che normali agli albori di un nuovo genere, non lo abbassano affatto nella mia considerazione: per me si tratta di un libro di grande piacevolezza. Infatti, non vedo l'ora di leggere La donna in bianco.

La sola cosa che rilevo è che, dato quanto c'è stato successivamente (e sto pensando ad Agatha Christie - Poirot a Styles Court, 1920-, che per originalità di soluzioni credo sia ancora imbattuta, ma anche a Conan Doyle - Uno studio in rosso, 1887), non riesco a considerarlo superiore ad altre opere che ho letto. Le opere che ho citate sono quelle d'esordio, non necessariamente le più riuscite.

Giudizio: ⭐⭐⭐⭐ 1/2


lunedì 4 marzo 2024

Il caso dell'abominevole pupazzo di neve non funziona come i veri classici

 L'autore de Il caso dell'abominevole pupazzo di neve è Nicholas Blake, nome che è, in realtà, l'alias di Cecil Day-Lewis, ossia il padre del pluripremiato attore, Daniel. Conosciuto come poeta e saggista, come Nicholas Blake ha pubblicato (tra il 1935 e il 1968) una ventina di romanzi gialli, di cui undici tradotti in italiano (tra il 1939 e il 2010) da Mondadori.


Originariamente The Corpse in the Snowman fu tradotto col titolo Misteri sotto la neve negli anni Ottanta, ma più recentemente è stato riadattato da Giunti col nuovo titolo, più accattivante.

Oltre al titolo, questa detective story ha anche l'ambientazione: la classica villa da ricco proprietario inglese, isolata dalla neve, in cui avviene una morte misteriosa. Chiamato per indagare su un mistero di poco conto, riguardante un gatto, in realtà Nigel Stangeways, con moglie appresso, si ritrova a interrogare i rispettabili ospiti dei signori Restorick per tutt'altro. Dire di più, stavolta, sciuperebbe tutto e, così, mi asterrò.

Come in un giallo classico abbiamo una bella casa, molti ospiti, tutti sospetti e con moventi per ogni crimine, e il detective privato, ma qui terminano le somiglianze.

Nigel Stangeways non è Poirot: somiglia molto di più a Hastings e questo è il peggior difetto del libro. Se, inizialmente, sono esposti fatti e indizi del crimine, successivamente Strangeways inizia a fare tutta una serie di elucubrazioni sulle ragioni e sul colpevole; è la prima volta che mi ritrovo in questa situazione. Di solito il detective non rivela tanto, non fa congetture, ma evidenzia i punti cruciali dell'indagine; se parla di una teoria, è per rivelare come stanno le cose; al massimo la spalla fa ipotesi non veritiere. In questo caso, invece, i due ruoli sono accorpati. Il risultato è che l'ultimo terzo del libro è una serie di lunghi e noiosi sproloqui sui pensieri di Strangeways, che da una parte mi fornisce idee che so essere fuorvianti, perché siamo nel punto sbagliato del libro, dall'altro si avvicina alla verità, fornendomi alcuni elementi che costituiranno parte della soluzione, troppo presto. Inoltre tutti questi ragionamenti (in un senso e nell'altro) sono deboli e inconsistenti, così come la soluzione. L'ultimo terzo del romanzo l'ho letto annoiandomi e considerando tutte le ipotesi solo fuffa, in attesa di una rivelazione, che non c'è stata, per metà spoilerata da quelle che credevo speculazioni preparatorie.

Strangeways manca di caratterizzazione e, persino, di attività. Gioca in modo fin troppo pulito con i suoi sospettati e non li pressa, non coglie i loro momenti di debolezza per fare le domande giuste. Si limita a pensare per la maggior parte del tempo.

Il libro, in realtà, era anche cominciato benissimo e lo stavo trovando scritto anche bene: erano i piccoli Restorick a fornire molte informazioni, erano carini e davano un punto di vista molto originale; dopo, purtroppo, sono quasi dimenticati.

Giudizio: un giallo debole, ammantato di noia ⭐⭐


domenica 3 marzo 2024

Il retelling della storia di Achille dal punto di vista della Miller

 Pareri distanti tra loro mi avevano raggiunta prima della lettura de La canzone di Achille, di Madeline Miller: dal capolavoro della storia d'amore, fino alla monnezza. Qual è la mia opinione dopo questa lettura?

Onestamente, una via di mezzo: non è né bello, né brutto, ma riesco a collocarlo almeno nel gradevole.


La storia la conosciamo: è quella di Achille e Patroclo, cresciuti insieme e indivisibili, destinati dalle Moire a segnare la storia della guerra di Troia, o, almeno, di una parte. Solo chi non ha fatto alcuna scuola superiore ignora chi sia Achille, il guerriero di Ftia, semidio invulnerabile (in questa versione non si fa riferimento al celebre tallone) e miglior guerriero del suo tempo. Potrebbe sfuggire un po' di più la figura di Patroclo, di cui si sente meno parlare, rispetto ai più famosi eroi achei e troiani (Odisseo, Ettore, Agamennone, Menelao, Paride, Diomede, Aiace), sennonché è proprio la sua figura a essere determinante nel destino del più grande protettore della città di Ilio.

In effetti il problema che ho avvertito immediatamente, fin dalle prime frasi del libro, è che, conoscendo la storia, non mi tornava che il narratore fosse proprio Patroclo. Ho litigato con questo concetto fino alla fine, quando finalmente se ne svela il senso (non credevo che ci fosse).

Malgrado il narratore in prima persona, la scrittura, che è poco più di una cronaca di una vicenda ben nota (diciamo che è un ripasso), è molto semplice e colloquiale (comprese le numerose frasi senza verbo). Non mi ha conquistata, ma non è sgrammaticata e non tenta inutile retorica.

Non apportando granché (la sola originalità è quella di concentrarsi sulla storia sentimentale tra Achille e Patroclo), non posso dire che questo retelling mi abbia particolarmente giovato, ma è comunque una versione carina e con poche libertà (per quanto conosco, non ha stravolto elementi cardine del mito conosciuto, che del resto non ha una sola versione, quella omerica, e dunque può anche permettersi di allargarsi un minimo, cosa fatta pochissimo dalla Miller. Inoltre è comunque una possibile versione e i personaggi letterari si prestano proprio a questo. L'unica cosa che non mi è proprio piaciuta è lo scontro tra Ettore e Achille, che ho trovato estremamente riduttivo. In generale è la parte finale della storia che si è presa le libertà maggiori riguardo al canone (se possiamo chiamarlo così).

Considerando un'altra versione, quella dal punto di vista di Odisseo, fatta da Valerio Massimo Manfredi, ricordo di averla trovata più appassionante, con maggiore pathos negli scontri, su cui era forse riversata maggiore attenzione. Del resto, Il mio nome è nessuno - Il giuramento è incentrato più del libro della Miller sulla guerra di Troia. La canzone di Achille, per la sua prima metà, si occupa degli anni di crescita di Patroclo e Achille, delle loro storie personali e della loro relazione.

Il carattere di Achille sembra piuttosto simile in questa ricostruzione a quello che intravediamo leggendo l'Iliade. Anche i maggiori eroi greci sono tratteggiati in maniera fedele al ricordo che possediamo dai tempi degli studi. La novità maggiore e, forse, anche l'interpretazione dell'autrice è su Patroclo, che riceve un approfondimento che non aveva mai avuto prima, probabilmente. Non l'ho trovato un ritratto coerente, se devo essere onesta. Nei primi capitoli e nei primi anni è un bambino e poi un ragazzo molto orgoglioso; durante la guerra diviene invece molto più disinteressato ai suoi bisogni e desideri. Vero è che può esserci stata un'evoluzione e che la guerra può averlo cambiato, ma mi è parso abbastanza netto come cambiamento. In ogni caso è sempre descritto come guidato dall'amore, anche se questo sentimento l'ho notato di più in lui (l'ho sentito), mentre in Achille è dichiarato, ma non l'ho così tanto apprezzato. Non ho percepito, insomma, la grandiosità del sentimento, lo strazio del distacco. Mi sono commossa quasi di più nell'addio con Briseide.

Forse la penna della Miller è poco matura (in fondo La canzone di Achille è il suo primo romanzo, del 2011)? Sono curiosa di leggermi Circe, scritto nel 2018, fra qualche tempo, per vedere se il miglioramento c'è stato, come ho sentito dire.

Giudizio: una sufficienza piena, ma non di più ⭐⭐⭐