domenica 23 giugno 2024

Oriana alla guerra: Insciallah

 Lettera a un bambino mai nato fu un testo che mi colpì molto fin da adolescente, per l'argomento trattato, il modo con cui è stato trattato e la scrittura fluida e poetica di Oriana Fallaci. Anni dopo lessi anche Un uomo, la biografia (molto più cruda dell'altro testo) dell'uomo che la giornalista amò e supportò nelle sue battaglie e che confermò la scrittura dell'autrice fiorentina come particolarmente gradita ai miei occhi; infine, quest'anno, ho recuperato, grazie a un gruppo di lettura, Insciallah, che non ha potuto far altro che consolidare l'amore che ho per questa scrittrice.


Anche Insciallah è un'opera emotivamente ostica da leggere, sebbene, in realtà, tutti e tre i romanzi che ho letto non lo sono a titolo gratuito: Oriana Fallaci è schietta e diretta nel raccontare cosa ha visto come inviata di guerra (e in generale nella vita). La sua penna non enfatizza mai, non celebra, non spettacolarizza, ma, al contempo, non nasconde nulla: è oggettiva ed è, dunque, la vita a essere cruda e non la sua scrittura. Un esempio sono la presenza delle bestemmie, che credo conferiscano credibilità al testo e che, in effetti, non sono mai a sproposito, ma messe in bocca ai personaggi che stanno sperimentando un'esperienza straordinaria e provante, oppure ai toscani, che posso testimoniare le utilizzano come intercalare, senza darvi troppo peso. Inoltre sono maggiormente presenti nell'esordio e scompaiono quasi del tutto successivamente.

L'apertura del romanzo è molto d'impatto, in questo senso, quasi a voler avvisare subito il lettore sul tono dell'opera e costringerlo immediatamente a decidere se avrà abbastanza fegato per proseguire nelle pagine che restano (non sono poche - totale 795 -, quindi è bene chiarirsi subito se vale la pena proseguire). Siamo a Beirut, città che fu teatro di una sanguinosissima guerra civile fra più gruppi religiosi, tra il 1975 e il 1990. In tempi e con modalità diverse, inglesi, francesi, italiani e americani invieranno dei contingenti per cercare di intervenire e garantire la pace (che utopia!, oltre all'arroganza di voler imporre gli ideali occidentali in un altro mondo, effettivamente ricambiata dall'odio e dalle ritorsioni delle popolazioni locali, divise su tutto, tranne che sul fatto di non volere stranieri a impicciarsi degli affari loro). Il contesto in cui si ambienta la storia è dunque vero, ma la storia che inventa Oriana Fallaci è interamente di finzione e ha per protagonisti i militari italiani in missione di pace nella capitale libanese: il romanzo si apre proprio con la strage del 23 ottobre 1983, che colpì le basi militari francese e americana a Beirut e che catapulta il lettore fra brandelli di corpi e bestemmie di mutilati e soccorritori.

Incontriamo il protagonista del romanzo, il matematico e militare Angelo, proprio in questo frangente, intento a scoprire l'orrore della strage e a interrogarsi se esista e quale sia la Formula della Vita, un concetto matematico che possa spiegarla. Angelo è in crisi tra vocazione professionale e legami affettivi, da quando la bellissima libanese Ninette gli fa la corte. La loro storia sarà centrale nella trama e le conseguenze del modo in cui evolve avrà ripercussioni sul destino di molti altri.

Piano piano, oltre ad Angelo scopriamo una lunga serie di altri soldati italiani, di ogni grado e reparto, ognuno a suo modo fondamentale per l'intrecciarsi delle vicende che si scatenano la domenica di ottobre degli attentati kamikaze e che culminano tre mesi dopo. Ogni personaggio ha una sua storia, un'identità, dei legami, qualcosa che lo muove e trovo che l'autrice sia stata magistrale nel crearne così tanti e, soprattutto, nell'annodare ciascuna di queste linee di narrazione (anche se sono talmente tanti che ogni tanto mi dimenticavo di qualcuno, finché non mi imbattevo di nuovo in lui). La riuscita dei personaggi varia e ad alcuni mi sono affezionata, durante la lettura, più che ad altri. La maggior parte di loro ha un arco narrativo carico di tormento: fuggono dai loro passati e cercano, a Beirut o malgrado Beirut, forme di riscatto o di consolazione.

Nei tre mesi in cui si ambientano le vicende, inoltre, conosciamo anche altri personaggi di contorno: i bambini che fanno amicizia con i militari, le suore del convento occupato per farne la base Rubino, Bilal lo spazzino, Passepartou l'adolescente cinico e sadico, e ancora membri di ciascuna delle parti in causa nella guerra. Fallaci ci spiega l'origine di un conflitto, in cui gli interessi di ciascuno sono complessi e, talvolta, mutevoli. Una delle più straordinarie imprese in cui riesce la scrittrice è raccontare ogni diverso punto di vista: soldati di lunga esperienza che amano la guerra, ma che entrano in conflitto con la propria vocazione a causa della guerra e soldati di lunga esperienza che odiano la guerra, eppure vi trovano una sua necessità; uomini che partono con una forte motivazione e la perdono; uomini che lasciano casa pieni di dubbi o di paure e che trovano il loro posto nel mondo; vili che diventano coraggiosi e viceversa; governativi, mussulmani, cristiani, figli di Dio. C'è spazio per la crescita, ma anche per la stasi e per cambiare idea più volte. C'è spazio per descrivere ogni forma di sentimento: l'ardore, la paura, il dubbio, l'amore, l'amicizia, la compassione, la sete di vendetta. Ognuna di queste emozioni e dei pensieri, anche totalmente contraddittori sono riportati con la stessa importanza: è un ecosistema, un piccolo mondo, popolato di personaggi quasi reali, comunque probabili. Oriana Fallaci si annienta quasi del tutto (quasi) e lascia spazio a molte altre voci, in ciascuna delle quali e in nessuna c'è un pezzettino di lei. La biografia della Fallaci ha chiaramente influenzato le sue posizioni sui conflitti e sui suoi protagonisti e quest'opera non sarebbe tale se lei non fosse stata la compagna di Alekos Panagulis. Io, personalmente, rivedo un po' di Oriana nel personaggio di Ninette.

La scrittura ha un ritmo che non è mai serrato, ma conduce inesorabile verso l'appuntamento col destino di ciascun personaggio. Nessuno è dimenticato, perché la struttura è curata al punto da far incastrare tutti i pezzi del puzzle nel giusto posto.

I dialoghi sono frequenti e ogni personaggio parla nella sua lingua o nel suo dialetto, subito seguito da una traduzione integrale o parziale del discorso. Anche se è pur sempre una ridondanza, c'è da ricordare che nel 1990 non tutti avevano ricevuto un'istruzione che permettesse di comprendere il francese o l'inglese, tantomeno l'arabo, il bergamasco, il napoletano o qualunque altra parlata si incontra nel testo. Ulteriori iterazioni sono quelle di alcune espressioni o, addirittura, intere parti di frasi o frasi: queste ripetizioni (nei dialoghi o per enfatizzare la particolare espressione usata) possono essere considerate fastidiose, ma, per conto mio, sono necessarie le prime e apprezzabili le seconde.

Si leggono crudeltà spaventose in questo libro (Un uomo non era da meno ed è citato a un certo punto), ma è anche un romanzo sofisticato per molti versi, tra cui l'aspetto metaletterario. Oriana s'intravede in trasparenza sia come personaggio, sia come autrice, che si fonde a sua volta con un altro personaggio, che scrive lettere a una moglie che non ha e anche una sua piccola versione dell'Iliade, con protagonisti gli uomini che lo circondano.

In conclusione, questo libro è molte cose: è ricco dal punto di vista degli avvenimenti, degli intrecci, delle emozioni che suscita; è intricato dal punto di vista dalla struttura. Consente un approfondimento su di un conflitto di cui non sapevo nulla, ma soprattutto sulla natura umana, che una donna esperta e stanca degli uomini come Oriana Fallaci aveva ben conosciuto. L'autrice si lancia contro e a favore dell'umanità che descrive, traendo spunto dalla realtà, dall'ipocrisia e dalle generosità che ha incontrato, anche perché, come sostiene l'autrice, entrambi i punti di vista, entrambe le possibilità sono plausibili e coesistono.

Giudizio: ⭐⭐⭐⭐1/2

lunedì 17 giugno 2024

Un altro Stevenson: La freccia nera

 Ho amato molto di Robert Luis Stevenson L'isola del tesoro e mi è piaciuto tantissimo Lo strano caso del dottor Jekyll e Mr. Hyde. Quando ho visto un gruppo di lettura che lo aveva in programma nel mese di maggio, ho, dunque, colto al volo l'opportunità di leggere anche La freccia nera (1883), molto famoso per i suoi adattamenti televisivi (quello con Arnoldo Foà e Loretta Goggi del 1968 e quella - meno acclamata - del 2006 con Riccardo Scamarcio, Martina Stella e Ennio Fantastichini). 


Come spiega lo stesso autore nella nota introduttiva all'edizione completa del 1888, questo romanzo (che io ho letto nell'edizione Mondadori, 300 pag + introduzione e postfazione) è stato pubblicato a puntate (ben 17) nella rivista Young Folks.

Ecco, io trovo che nella trama e nella struttura questa caratteristica si ritrovi completamente e che abbia determinato la sua riuscita (e quindi il mio gradimento).

Le vicende si ambientano durante la Guerra delle due rose, anche se solo un personaggio realmente esistito appare nel romanzo, ossia Richard Crookback di Gloucester, che nel 1483 diviene Riccardo III e che è sempre stato ritenuto il protagonista più interessante ed efferato di quella parte della storia inglese.

Divisa in cinque parti, la storia ci introduce, innanzitutto, i rapporti che legano il giovane Richard (Dick, anche per non confonderlo con il duca di Gloucester) Shelton con il suo protettore, Sir Daniel Brackley, voltafaccia che passa alternativamente dal parteggiare per i Lancaster agli York. Sir Daniel cresce l'orfano Dick, ma scopriamo subito che ha a che fare con la morte di suo padre.

A denunciare il complotto che portò alla morte di Herry Shelton è John Duckworth, detto Riparatorti (o, secondo le edizioni, Vendicatorti o Aggiusta tutto), l'uomo che, privato dei suoi beni a causa di Sir Daniel, fonda nel cuore della foresta di Tunstall la banda della Freccia Nera, che vuole vendicarsi dei misfatti compiuti da Brackley e dai suoi complici.

Dick si imbatte in questa banda nella sua prima traversata della foresta, che compie insieme a un altro personaggio centrale della vicenda. Altra protagonista (fino a un certo punto, perché poi il buon Stevenson la perde un po' di vista) della storia è infatti Joan Sedley, altra vittima dei piani di Sir Daniel.

Questa prima parte del romanzo è molto interessante per atmosfera e per i risvolti che promette la banda della Freccia Nera. Solo che, terminato il secondo libro, niente di tutto questo viene ripreso e portato a termine.

La banda della Freccia Nera, che inizialmente sembra la combriccola di Sherwood, d'improvviso diventa un gruppo di sbandati, pronti a seguire come a tradire il proprio leader, mossi solo da istinti egoisti e la promessa di denaro o di bevute.

In primis il bandito che la mia edizione chiama Senzalegge, una sorta di Frate Tuck, in quanto ex frate, oltre che ex marinaio (insomma, molto esperto in molte diverse cose della vita), assume caratteristiche diverse a distanza anche di poche pagine: da abile capitano che conduce in salvo una nave, a miserabile ubriaco che si macchia di efferatezze, almeno stando alle impressioni del nostro protagonista Dick, che pare avere pesi e misure diverse per quanto riguarda uccidere altri uomini (attività quanto mai comune durante le Guerre delle Rose). Senzalegge in alcuni momenti è il mio personaggio preferito di questo romanzo, ma è regolarmente bistrattato dal suo stesso autore, che gli concede alternativamente momenti alti e bassi.

John Duckworth, che dovrebbe essere uno dei personaggi cruciali per come è impostata inizialmente la storia, scompare, salvo essere nominato, ma non presente, se non per un brevissimo colloquio (nonché l'unico tra loro nel romanzo) con Dick a quattro pagine dalla fine del romanzo. Il rapporto tra Riparatorti e Dick è inesistente, mentre mi aspettavo che ci fosse qualche legame alla mentore-allievo. Inoltre Duckworth dovrebbe essere il capo della Banda della Freccia Nera, ma il romanzo si allontana totalmente da seguire la storia dei banditi e dunque il loro generale perde il suo posto in questa storia.

Lo stesso Sir Daniel, che come cattivo è affascinante e sempre un passo avanti ai suoi nemici (o amici, tanto è lo stesso), è un po' trascurato in alcuni momenti, anche se mai come Riparatorti.

Quest'ultima vira, infatti, verso la guerra e lascia Dick a scoprire da quale parte in causa pende la sua lealtà; non solo. Uno degli aspetti che salvano il romanzo dal pasticcio di sottotrame che non si ricongiungono è lo sviluppo del protagonista. Se è vero che Stevenson lo conduce per vie che non mi aspettavo, dimenticandosi del titolo del romanzo e dell'idea di partenza, è pur vero che queste strade costituiscono un percorso di crescita per il ragazzo. Dick si trova a commettere leggerezze, trascinato dall'esuberanza giovanile e dalla tendenza ad agire senza valutare le conseguenze; tuttavia matura, grazie alla guerra e alle conseguenze di quegli stessi suoi errori, che gli ripresentano il conto, dandogli l'opportunità di rimediare in parte, essendosene pentito e avendo imparato la lezione. Unico nel contesto dello scontro fra case regnanti, Dick è quasi super partes, non riscontrandosi in nessuno dei partiti e non cercando neppure di ingraziarseli, pur ritrovandosi invischiato nelle battaglie e traendone persino dei benefici.

In conclusione, ritengo che la storia promettesse molto bene e che almeno la prima parte abbia un'ambientazione e un'atmosfera piacevoli e interessanti; trovo che sia stato fatto un buon lavoro sul personaggio di Dick, ma non salvo il modo sconclusionato con cui sono state portate avanti le vicende, perdendo di vista personaggi, senso dell'opera e inserendo invece altri elementi a tratti inutili (come l'amica di Joan). Principalmente sono rimasta male dallo scollegamento tra l'inizio e la parte centrale e finale; tutte le domande che ci facciamo all'inizio non trovano risposta e quanto annunciato nel prologo è perso di vista, probabilmente a causa della narrazione a puntate (forse non c'era un piano originale studiato nei dettagli fin da subito?). Non posso fare a meno di confrontare questa trama con quella di La donna in bianco di Wilkie Collins, che pur essendo pubblicata a puntate, al termine trovò un posto per ogni pezzo del puzzle.

L'avventura rimane al centro di ogni libro che compone l'opera, anche se i singoli episodi a tratti risultano scollegati. La scrittura è comunque scorrevole, ma non trovo che sia la penna migliore che abbia utilizzato il caro Stevenson.

Giudizio: una sufficienza non proprio piena ⭐⭐ 1/2

venerdì 7 giugno 2024

Prima esperienza con le detective stories orientali: il detective Kindaichi

 Edito nel 1946, Il detective Kindaichi, alias I delitti di Honjin, vinse il Mystery Writers of Japan Award nel 1948. A quanto mi risulta, questo romanzo, tradotto in Italia da Sellerio (203 pagine più glossario) è il primo della serie che ha per protagonista Kosuke Kindaichi, che qui appare come un giovane, circa venticinquenne, dall'aria trasandata, ma abile osservatore.


L'autore, Kosuke Kindaichi, è noto per la sua passione per i gialli occidentali (di cui cita molti autori anche nel romanzo, in particolare Dickson Carr, a cui è stato paragonato, arrivando a definirlo la sua variante giapponese), che ha tentato di emulare anche nella propria scrittura. Ci è riuscito?

Naturalmente posso esprimermi solo per il volume che ho letto, la cui ambientazione, tuttavia è molto nipponica, seppure lo stile di scrittura e la modalità con cui Kindaichi segue le indagini (anche se un po' carenti) rimandino al giallo classico, così come la trama.

Si tratta, infatti, di un delitto della stanza chiusa, grande must del genere giallo, particolarmente nel periodo in cui la storia è scritta. Nello stesso prologo si fa riferimento a Il mistero della camera gialla di Gaston Leroux (1907), Arsen Lupin. I denti della tigre di Maurice Leblanc (1921), La canarina assassinata (1927) e La tragedia in casa Coe (1933) di S. S. Van Dine e, naturalmente, La casa stregata di Dickson Carr (1934). Io aggiungo L'assassinio di Roger Ackroyd (1926) e Il Natale di Poirot (1938) di Agatha Christie.

La storia inizia con un narratore che rievoca quanto gli è stato raccontato da il dottor F. Il caso del villaggio di Yamanodani è riportato come se fosse un racconto di terza mano. Introdotta la ricca famiglia Ichiyanagi e gli antefatti del matrimonio tra il primogenito Kenzo e la maestra di scuola Katsuko, già nel capitolo 4 giungiamo alla tragedia. Gli eventi concernenti l'omicidio sono descritti dal punto di vista dell'affezionato zio di Katsuko, Ginzo: è lui che a chiamare a investigare il suo abile conoscente, Kindaichi, che comparirà quattro capitoli più tardi. I due coniugi sono, infatti, rinvenuti nella dépendance della casa principale, dove stavano trascorrendo la prima notte di nozze. Il luogo, descritto minuziosamente, anche con l'aiuto di una mappa, risulta tuttavia difficile da inquadrare per l'immaginazione di un lettore occidentale, tra soprafinestre, ponticelli, Shoji e, soprattutto, lo  strumento musicale protagonista del mistero, il koto.

Altro protagonista della storia è l'uomo con tre dita, che si aggira intorno alla casa fin dall'inizio. Il lettore di gialli un po' avveduto indovinerà presto come si inserisce nella vicenda.

Le descrizioni paesaggistiche e degli edifici sono molte e un pochettino prolisse, a mio parere: perlomeno hanno appesantito la mia lettura, che non è risultata così scorrevole. Le indagini sono presenti, ma al lettore non sono svelati tutti gli elementi che scopre Kindaichi (come vorrebbe invece l'ottava regola del decalogo di Knox). Il detective un po' prosegue per deduzioni e un po' per intuito. La nota più dolente è probabilmente il finale, la risoluzione del mistero, per due ragioni: la prima è proprio chi è stato; la seconda è la dinamica del delitto, molto alla Detective Konan, ossia impossibile da indovinare (un po' come tutti i sistemi con cui sono risolti i misteri delle camere chiuse, del resto).

Giudizio: un po' noioso e un po' deludente ⭐⭐

Fare la conoscenza del Commissario Soneri con L'affittacamere

 La serie del commissario Soneri è famosa per l'adattamento televisivo con Luca Barbareschi e Natasha Stefanenko, Nebbie e delitti e comprende sedici libri, i primi quattordici editi da Frassinelli, mentre gli ultimi da Mondadori. Proprio Mondadori ha curato la ripubblicazione del volume L'affittacamere, che lo scorso luglio l'autore ha presentato al festival Cesenatico Noir, evento durante il quale ne ho acquistato e fatta autografare una copia. Questo maggio sono finalmente riuscita a leggerlo, immergendomi nella sua malinconia.


Questo romanzo è il quinto con protagonista questo commissario solitario e un po' musone. In particolare, questa indagine consente di approfondire una delle ferite che rendono Soneri cupo, distante dai collaboratori e, persino, dalla compagna, Angela.

Il giallo si apre, infatti, con una vecchia conoscenza dell'uomo, la signora Fernanda, che viene in commissariato a cercarlo, perché la sua vicina di casa, Ghitta, non risponde, eppure non dovrebbe essersi assentata. In effetti, Soneri ne scoprirà presto il cadavere e inizierà a indagare, con il contributo, mantenuto un po' a distanza, dell'ispettore Juvara. Il commissario, in realtà, si farà aiutare un po' anche da Angela, che lo guiderà alla riscoperta del vecchio centro di Parma, ormai abbandonato dalla borghesia bene e rimasto popolato solo da stranieri e derelitti. Tuttavia, l'uomo terrà anche la compagnia a una certa distanza emotiva, preferendo addentrarsi nella giunga del centro storico e in tristi ricordi da solo e per un motivo preciso. Il luogo del delitto, infatti, è la casa e la pensione di Ghitta, che molti anni prima aveva affittato una camera anche alla moglie, nientemeno, dello stesso Soneri, morta da alcuni anni.

L'indagine, condotta tra le nebbie e le notti delle stradine meste, ma non del tutto disabitate, della città, guida il commissario a incontrare figure che provengono dal suo passato e da quello di Ghitta: lo porteranno dritto dritto a scontrarsi coi suoi fantasmi e con quanto è rimasto di insoluto nella fine del suo matrimonio.

Si tratta di una storia molto malinconica; la scrittura è molto attenta a scandagliare le sensazioni del commissario e degli indagati, così come di tutti coloro che ruotano attorno al caso. L'atmosfera stessa è molto intima.

Riguardo allo stile di poliziesco, il commissario Soneri segue le orme di un Montalbano o un Adamsberg: vaga seguendo il suo filo dei pensieri e delle sensazioni. Gli interrogatori da cui scaturiscono le riflessioni, anche solide, del poliziotto sono guidati da intuizioni, che lo mantengono sempre in vantaggio rispetto al lettore. 

La scrittura alterna dunque dialoghi, piuttosto scorrevoli e credibili, alla descrizione dei paesaggi cittadini e delle peregrinazioni del commissario. Questa parte, per me, è stata molto apprezzabile. La storia, invece, mi ha interessata fino a un certo punto, anche se l'alone di amarezza e rimpianto che caratterizza la vicenda l'ha anche resa interessante, particolare e gradevole per me.

In conclusione, tuttavia, il gradimento è non eccezionale.

Giudizio: ⭐⭐⭐

domenica 2 giugno 2024

Episodi di vita della...Gente di Dublino

 James Joyce, studiato come tutti a scuola, mi ha sempre incusso un certo timore reverenziale, principalmente per lo stile noto come "flusso di coscienza", utilizzato in alcune sue opere, tra cui il romanzo Ulisse. Mi sono dunque approcciata solo quest'anno a una delle sue opere più note, regalatami anni fa, ossia Gente di Dublino.


I Dubliners (titolo inglese) sono una raccolta di racconti ambientati nella Dublino di Joyce, pubblicata nel 1914, otto anni prima dell'uscita di Ulisse, che è quasi un episodio più lungo e con meno punteggiatura di questa stessa raccolta.

Il mondo raccontato da Joyce, infatti, e che fa da sfondo ai suoi personaggi nei racconti e nei romanzi è questa città industriale e in crescita, più un ricordo per l'autore, che non una realtà, essendosene allontanato poco più che ventenne nel 1904. I racconti sui Dublinesi sono composti tra l'anno della partenza e il 1907.

Si tratta di quindici racconti, piuttosto brevi, eccetto l'ultimo, di circa una cinquantina di pagine nella mia edizione Mondadori del 2014. Si incentrano su episodi o situazioni di vita di persone qualunque, spesso di bassa estrazione sociale, ma non esclusivamente.

Il primo racconto della raccolta, Le sorelle, forse quello che mi è piaciuto meno, ha per protagonista un ragazzo, che deve affrontare una brutta notizia riguardante un suo conoscente e mentore; sempre per protagonisti dei ragazzi anche i racconti Un incontro, fatto proprio da due giovani studenti che marinano la scuola e che si rivela anche un po' ambiguo e inquietante e Arabia. 

In questo caso il protagonista attende con ansia tutta la giornata di potersi recare in un bazar, per un motivo romantico. Questo è uno dei racconti che mi è più piaciuto, per le capacità dell'autore di raccontare in modo tanto credibile le emozioni del giovane, sia nell'attesa di quel pellegrinaggio, sia nel finale. Questa stessa caratteristica si ritrova anche in Eveline, dove protagonista è una diciannovenne che si dibatte tra aspirazioni e sensi di colpa.

Dopo la corsa è il secondo racconto che non mi è piaciuto probabilmente per il suo essere amaro, riguardando un gruppo di amici che passano una serata insieme a fare baldoria e a giocare a poker.

Nemmeno I due galanti, per il tema molto maschilista, ha fatto breccia nel mio cuore, ma si colloca meno in basso per l'ambientazione e l'accurata descrizione dello stato d'animo di uno dei due personaggi, che attende l'amico per sapere com'è andata la serata con una donna. Un po' vano, come questi ultimi due, sarà anche il racconto Il giorno dell'edera, anche se è il dodicesimo in ordine, in cui discutono fra loro i membri di un team elettorale.

Pensione di famiglia è un racconto più leggero, dall'aria di commedia, con qualche richiamo alla Locandiera di Goldoni, per via del personaggio della scaltra proprietaria della pensione, che ha tutte le intenzioni di farsi valere in una faccenda che riguarda la figlia. Questo racconto non è esente da una nota amara, come gli altri della raccolta, ma non quanto Una piccola nube, dove un confronto fra vecchi amici fa riflettere molto sulla condizione della propria vita.

Tristissimo e cupo, invece, è il racconto chiamato Rivalsa, in cui Joyce illustra molto bene le conseguenze che ha su un uomo l'alcolismo, sul lavoro e a casa. Non ha un lieto fine neppure Un caso pietoso, che narra di un uomo e una donna che si conoscono a un concerto e che, condividendo la passione per la musica, intrattengono per un certo tempo un rapporto di amicizia. Sulla tristezza della condizione umana si incentra anche Polvere (che in realtà è Clay in inglese, argilla, più attinente a quello che accade nel racconto), incentrato su una visita che compie una povera lavandaia di nome Maria al bambino che accudiva un tempo, ormai adulto e con una sua famiglia.

Ancora un'ingiustizia è protagonista del racconto Una madre, dove una donna si trova a scegliere tra far subire un torto alla figlia e comprometterne la carriera futura in un mondo scorretto e maschilista; anche questo, come molti di quanti già citati, lascia l'amaro in bocca.

Meno amaro e tragico è invece La grazia, dove un gruppo di amici si unisce per aiutare un loro conoscente, anch'esso afflitto da alcolismo, e la sua sfortunata moglie. Anche I morti ha un inizio meno triste degli altri racconti, poiché ambientato a una festa, eppure i dispiaceri e i problemi delle vite dei personaggi trapelano lo stesso nelle pagine, quasi che non si potessero lasciare fuori dalla porta di casa neanche se si sta festeggiando un bianco Natale.

Questa Dublino di povera gente, violenti, ubriaconi, sbandati è estremamente affascinante e triste. Mi è piaciuto moltissimo il modo in cui Joyce ha saputo raccontare queste miserie del portafoglio o dell'animo, scolpendo personaggi molto vividi. Ho avuto certo torto a pensare che sarebbe stata una lettura pesante, perché si è rivelata interessante, quasi emozionante, e non mi ha richiesto più di un pomeriggio. La scrittura non è ricercata, ma semplice, si adatta al tema dei racconti.

Giudizio: ⭐⭐⭐⭐