Il terzo libro che leggo di John Steinbeck, dopo Uomini e topi e La valle dell'Eden, è Furore (Bompiani, 656 pagine), la cui lettura è stata particolarmente piacevole per averla portata avanti in compagnia, elemento di conforto, dato l'alto impatto emotivo di questo romanzo, che l'autore pubblicò nel 1939, portandolo l'anno successivo a vincere il premio Pulitzer.
Anche per via di questo riconoscimento, Furore è considerata l'opera migliore di Steinbeck, per le tematiche e il modo con cui son trattate, a partire dalla struttura e dai personaggi. Non fu, tuttavia, esente da contestazioni da parte dei conservatori, per il contenuto chiaramente politico e anticapitalistico.
Il romanzo copre i cambiamenti socioeconomici di uno spaccato degli Stati Uniti negli anni Trenta e lo fa da due punti di vista, uno generale, che dipinge il quadro di contesto per ogni singolo aspetto della storia e uno incentrato sulla famiglia protagonista, più intimo; uno, dunque, storico e uno personale, umano.
Le due prospettive si alternano nella struttura dei capitoli, proprio in rapporto uno a uno, e credo che ciascuna parte possa sussistere in modo indipendente dall'altra. In futuro, magari quando avrò superato il trauma della prima, mi piacerebbe tentare delle letture "selettive" di una o di entrambe le parti.
Steibeck non risparmia nulla: il cinismo di chi ha qualcosa e può permettersi di tiranneggiare, di approfittarsi degli altri, ciecamente convinto che non toccherà mai a lui; la povertà, l'inedia, la fame, la malattia, la disperazione, la morte, la miseria più nera, lo squallore. Ogni aspetto di questo quadro è esaminato e raccontato in dettaglio, addirittura raddoppiato, proprio perché raccontato con entrambi i punti di vista, macroscopico e microscopico. L'autore si prende tutto lo spazio necessario, fino a indugiare quasi in una pornografia del dolore e della miseria. Lo stile di Steinbeck per me si riconferma sublime ed è fluido, cinematografico; le pagine si bevono, eppure nel corso della lettura hanno convissuto in me il bisogno di andare avanti e vedere cosa sarebbe successo e quello di fermarsi e prendere respiro, perché molte parti sono così crude da essere dolorose, ostiche.
La storia della famiglia Joad si inserisce in questo quadro: sono una delle migliaia di famiglie che perde la propria terra e che decide di partire per la California, esattamente nel momento in cui il secondogenito della famiglia, Tom, esce di prigione sulla parola per tornare a casa. I Joad intraprendono un viaggio difficile e faticoso, con pochi averi e pochi soldi, dopo aver venduto o abbandonato le loro cose e aver cercato di non farsi truffare troppo per acquistare un mezzo di trasporto. Condividono il destino di migliaia di altri sfollati, disperati e senza niente salvo la dignità e capaci di strappare momenti di emozione al lettore. Il viaggio dall'Oklahoma alla California occupa quasi metà del romanzo e, non appena la famiglia arriva, il lettore pensa di poter tirare un sospiro di sollievo, ma sta per scivolare in un abisso ben peggiore, fatto di discriminazione, sfruttamento e odio. Gli Okie, come sono dispregiativamente chiamati, subiscono ogni possibile angheria, fino a perdere tutto, dalla dignità alla possibilità di sfamarsi.
Steinbeck ci fa immedesimare in tutto questo attraverso gli straordinari membri della famiglia Joad: secondo me sono proprio i personaggi il punto di forza di questo romanzo e degli altri scritti che ho letto dell'autore. Ancora una volta lo scrittore riesce a svelarci la loro anima con pochi tratti di penna, mostrandoci come si esprimono, come sentono, come interagiscono con gli altri, e poi approfondendoli con cura e tempo nel corso della storia. Persino i personaggi secondari sono raccontati con maestria.
Tom, personaggio nevralgico, anche se è la famiglia, coralmente, la protagonista, è la guida dei suoi, il più lungimirante e avveduto, il meno abbindolabile, probabilmente in virtù del periodo scontato in carcere e dell'esperienza maturata. Tom è il preferito di Ma', la grande matrona che tira avanti la famiglia. Madre e figlio si somigliano in questo: sono pratici, disincantati, ma anche consapevoli di cosa occorre per portare a casa il pane e la buccia: tenere insieme la famiglia. Ma' è forte, solida, si rimbocca le maniche, si dà da fare e non perde mai di vista quali sono le cose giuste da fare, mentre Tom è tormentato e gli ribolle sotto la pelle l'ingiustizia e l'indignazione che anche il lettore prova nella lettura. L'incontro con l'ex predicatore Casy (personaggio carismatico, il cui arco narrativo non mi ha soddisfatta del tutto) e le storture a cui assiste e che subisce lo porteranno a un'idea, un'idea che si sente maturare per tutto il romanzo (obiettivo e motore ultimo di questa storia), non solo in lui, ma in molti discorsi dei personaggi, proprio nell'ambiente che circonda la famiglia: quella di una comunità da riunire per portare avanti la lotta contro un sistema marcio che li definisce "rossi", quando in realtà sono solo persone che vogliono vivere, esattamente come chi li opprime.
Gli altri membri della famiglia, secondo me, sono meno caratterizzati (Pa', Al, Noah, Nonno, Nonna e i piccoli Ruth e Winfield), anche se le loro emozioni sono sempre rappresentate in modo molto preciso, percepibile; fanno eccezione Rosasharn, per la quale ho costantemente provato un senso di fastidio, ma che ha una fetta importante di storia, e zio John, sul quale i riflettori sono poco puntati, ma che, per me, buca la pagina con la sua storia.
In conclusione, ritengo questo romanzo un capolavoro, per il suo valore oggettivo, storico, stilistico e politico; sono stata davvero incantata dai personaggi e dalla storia, che non riuscivo a smettere di leggere, anche se (o proprio perché) mi ha fatta soffrire in certi momenti, ma non l'ho amato come le altre due opere di Steinbeck che ho letto.
Perché? Credo perché l'ho sentito più politico che umano: ciò che lo rende grande oggettivamente, l'affresco storico e sociale che è, prevale (anche se di poco) sull'aspetto intimamente drammatico. Non c'è quell'obiettivo così marcato in Uomini e topi e il focus de La valle dell'Eden è la lotta tra bene e male che risiede in ciascuno di noi: il dramma personale è maggiormente al centro ed è per questa ragione che li preferisco, pur trovando Furore scritto magistralmente. In particolare, trovo che, tra questi tre, il miglior romanzo di Steinbeck sia La valle dell'Eden, che arriva coi personaggi creati a un livello di approfondimento e complessità eccellenti. Sicuramente leggerò altre opere dell'autore per vedere se qualcuna può rubarne il posto, ma lo ritengo improbabile.
Ho anche trovato eccessiva la ridondanza di dolore a cui il lettore è costantemente esposto, arrivando in certi momenti a percepirlo affettato (a differenza della crudità nuda, mai tendente al patetismo, sebbene molto spinta, di una Oriana Fallaci in Insciallah o in Un uomo).
Giudizio: ⭐⭐⭐⭐1/2




