mercoledì 17 settembre 2025

Il grande romanzo americano per eccellezza, ma non il mio preferito di Steinbeck: Furore

 Il terzo libro che leggo di John Steinbeck, dopo Uomini e topi e La valle dell'Eden, è Furore (Bompiani, 656 pagine), la cui lettura è stata particolarmente piacevole per averla portata avanti in compagnia, elemento di conforto, dato l'alto impatto emotivo di questo romanzo, che l'autore pubblicò nel 1939, portandolo l'anno successivo a vincere il premio Pulitzer.

Anche per via di questo riconoscimento, Furore è considerata l'opera migliore di Steinbeck, per le tematiche e il modo con cui son trattate, a partire dalla struttura e dai personaggi. Non fu, tuttavia, esente da contestazioni da parte dei conservatori, per il contenuto chiaramente politico e anticapitalistico.

Il romanzo copre i cambiamenti socioeconomici di uno spaccato degli Stati Uniti negli anni Trenta e lo fa da due punti di vista, uno generale, che dipinge il quadro di contesto per ogni singolo aspetto della storia e uno incentrato sulla famiglia protagonista, più intimo; uno, dunque, storico e uno personale, umano.

Le due prospettive si alternano nella struttura dei capitoli, proprio in rapporto uno a uno, e credo che ciascuna parte possa sussistere in modo indipendente dall'altra. In futuro, magari quando avrò superato il trauma della prima, mi piacerebbe tentare delle letture "selettive" di una o di entrambe le parti.


Negli anni Trenta alcune zone agricole degli Stati Uniti subirono un notevole impoverimento del suolo, a causa della combinazione di elementi metereologici e tecnologici: tempeste di sabbia si accanirono su terreni già impoveriti dalla non abitudine alla rotazione delle colture e da altre tecniche poco efficaci. Chi viveva di quelle terre si ritrovò prima a venderle per restare come fittavoli e poi a lasciarle, quando le banche decisero di espropriare e di affidare la gestione della terra a chi poteva restituire fertilità ai terreni con tecniche diverse e macchinari più costosi. Capitò, dunque, che moltissimi ex coltivatori del Midwest si spostarono in California, attratti da un'ingannevole pubblicità che garantiva lavoro per tutti e prosperità. Si trattava di una falsa promessa, a discapito di chi pensava di aver lasciato l'inferno, consistente nella perdita delle possibilità di mantenere la propria famiglia, per il paradiso. I proprietari terrieri californiani, infatti, colsero al volo l'occasione di una grande quantità di manodopera nullatenente e disperata per potersi permettere salari da fame: nessun lavoro a lungo termine, nessuna possibilità di stabilizzarsi, solo una concorrenza spietata fra poveri, disposti ad accettare qualsiasi paga, sempre più bassa, pur di accaparrarsi un impiego anche a giornata, ma sufficiente ad acquistare almeno un pasto e procrastinare almeno per un altro po' l'inevitabile.

Steibeck non risparmia nulla: il cinismo di chi ha qualcosa e può permettersi di tiranneggiare, di approfittarsi degli altri, ciecamente convinto che non toccherà mai a lui; la povertà, l'inedia, la fame, la malattia, la disperazione, la morte, la miseria più nera, lo squallore. Ogni aspetto di questo quadro è esaminato e raccontato in dettaglio, addirittura raddoppiato, proprio perché raccontato con entrambi i punti di vista, macroscopico e microscopico. L'autore si prende tutto lo spazio necessario, fino a indugiare quasi in una pornografia del dolore e della miseria. Lo stile di Steinbeck per me si riconferma sublime ed è fluido, cinematografico; le pagine si bevono, eppure nel corso della lettura hanno convissuto in me il bisogno di andare avanti e vedere cosa sarebbe successo e quello di fermarsi e prendere respiro, perché molte parti sono così crude da essere dolorose, ostiche.

La storia della famiglia Joad si inserisce in questo quadro: sono una delle migliaia di famiglie che perde la propria terra e che decide di partire per la California, esattamente nel momento in cui il secondogenito della famiglia, Tom, esce di prigione sulla parola per tornare a casa. I Joad intraprendono un viaggio difficile e faticoso, con pochi averi e pochi soldi, dopo aver venduto o abbandonato le loro cose e aver cercato di non farsi truffare troppo per acquistare un mezzo di trasporto. Condividono il destino di migliaia di altri sfollati, disperati e senza niente salvo la dignità e capaci di strappare momenti di emozione al lettore. Il viaggio dall'Oklahoma alla California occupa quasi metà del romanzo e, non appena la famiglia arriva, il lettore pensa di poter tirare un sospiro di sollievo, ma sta per scivolare in un abisso ben peggiore, fatto di discriminazione, sfruttamento e odio. Gli Okie, come sono dispregiativamente chiamati, subiscono ogni possibile angheria, fino a perdere tutto, dalla dignità alla possibilità di sfamarsi.

Steinbeck ci fa immedesimare in tutto questo attraverso gli straordinari membri della famiglia Joad: secondo me sono proprio i personaggi il punto di forza di questo romanzo e degli altri scritti che ho letto dell'autore. Ancora una volta lo scrittore riesce a svelarci la loro anima con pochi tratti di penna, mostrandoci come si esprimono, come sentono, come interagiscono con gli altri, e poi approfondendoli con cura e tempo nel corso della storia. Persino i personaggi secondari sono raccontati con maestria.

Tom, personaggio nevralgico, anche se è la famiglia, coralmente, la protagonista, è la guida dei suoi, il più lungimirante e avveduto, il meno abbindolabile, probabilmente in virtù del periodo scontato in carcere e dell'esperienza maturata. Tom è il preferito di Ma', la grande matrona che tira avanti la famiglia. Madre e figlio si somigliano in questo: sono pratici, disincantati, ma anche consapevoli di cosa occorre per portare a casa il pane e la buccia: tenere insieme la famiglia. Ma' è forte, solida, si rimbocca le maniche, si dà da fare e non perde mai di vista quali sono le cose giuste da fare, mentre Tom è tormentato e gli ribolle sotto la pelle l'ingiustizia e l'indignazione che anche il lettore prova nella lettura. L'incontro con l'ex predicatore Casy (personaggio carismatico, il cui arco narrativo non mi ha soddisfatta del tutto) e le storture a cui assiste e che subisce lo porteranno a un'idea, un'idea che si sente maturare per tutto il romanzo (obiettivo e motore ultimo di questa storia), non solo in lui, ma in molti discorsi dei personaggi, proprio nell'ambiente che circonda la famiglia: quella di una comunità da riunire per portare avanti la lotta contro un sistema marcio che li definisce "rossi", quando in realtà sono solo persone che vogliono vivere, esattamente come chi li opprime.

Gli altri membri della famiglia, secondo me, sono meno caratterizzati (Pa', Al, Noah, Nonno, Nonna e i piccoli Ruth e Winfield), anche se le loro emozioni sono sempre rappresentate in modo molto preciso, percepibile; fanno eccezione Rosasharn, per la quale ho costantemente provato un senso di fastidio, ma che ha una fetta importante di storia, e zio John, sul quale i riflettori sono poco puntati, ma che, per me, buca la pagina con la sua storia.

In conclusione, ritengo questo romanzo un capolavoro, per il suo valore oggettivo, storico, stilistico e politico; sono stata davvero incantata dai personaggi e dalla storia, che non riuscivo a smettere di leggere, anche se (o proprio perché) mi ha fatta soffrire in certi momenti, ma non l'ho amato come le altre due opere di Steinbeck che ho letto. 

Perché? Credo perché l'ho sentito più politico che umano: ciò che lo rende grande oggettivamente, l'affresco storico e sociale che è, prevale (anche se di poco) sull'aspetto intimamente drammatico. Non c'è quell'obiettivo così marcato in Uomini e topi e il focus de La valle dell'Eden è la lotta tra bene e male che risiede in ciascuno di noi: il dramma personale è maggiormente al centro ed è per questa ragione che li preferisco, pur trovando Furore scritto magistralmente. In particolare, trovo che, tra questi tre, il miglior romanzo di Steinbeck sia La valle dell'Eden, che arriva coi personaggi creati a un livello di approfondimento e complessità eccellenti. Sicuramente leggerò altre opere dell'autore per vedere se qualcuna può rubarne il posto, ma lo ritengo improbabile.

Ho anche trovato eccessiva la ridondanza di dolore a cui il lettore è costantemente esposto, arrivando in certi momenti a percepirlo affettato (a differenza della crudità nuda, mai tendente al patetismo, sebbene molto spinta, di una Oriana Fallaci in Insciallah o in Un uomo).

Giudizio: ⭐⭐⭐⭐1/2

Aldo Cazzullo racconta la Grande Guerra dei nostri nonni

 Il giornalista Aldo Cazzullo nel 2014 pubblica con Mondadori (248 pag) La guerra dei nostri nonni. 1915-1918: storie di uomini, donne, famiglie.


Attraverso diari, lettere, giornali, circolari dell'epoca e, persino, interviste e testimonianze, comprese i ricordi dei discendenti, l'autore ripercorre i principali aspetti umani della Grande Guerra: non i fatti in ordine cronologico, ma spaccati che approfondiscono aspetti specifici della vita al fronte e a casa.

Cazzullo ci racconta le condizioni di vita in trincea, le decimazioni, la gestione sotto Cadorna e quella sotto Diaz, quali erano gli svaghi al fronte e le cause di morte, come erano considerati i militari nell'opinione pubblica, dai generali e cosa invece emergeva dai documenti personali dei soldati.

Soprattutto ci descrive i protagonisti del conflitto: non solo ufficiali e soldati semplici, manche le donne, crocerossine, combattenti, lavoratrici; gli alpini, persino gli animali.

Il saggio è diviso in una ventina di piccoli capitoli, scritti in modo chiaro e semplice, di facile accesso per qualunque lettore. Alcuni affrontano tematiche più crude e impegnative, ma uno tira l'altro.

Giudizio: ⭐⭐⭐


Il mio primo approccio a Borges è stato un disastro

 Avevo aspettative altissime sulla narrativa di Jorge Luis Borges, ma errate, fondate su una convinzione generata dall'accostamento del suo nome a quello di Italo Calvino.

Non credo ci possano essere due prose tanto diverse o, perlomeno, questa è l'impressione che ne ho ricavata leggendo la mia prima raccolta di racconti dell'autore argentino, L'Aleph (Feltrinelli, 192 pagine scritte molto grandi, almeno dal confronto fatto col romanzo finito di leggere poco prima, Cucinare un orso, edito da Iperborea).


I racconti sono brevi, alcuni davvero brevissimi, e mi hanno lasciata spiazzata, soprattutto i primi, che sembravano interrompersi prima che io fossi entrata nella vicenda. I fatti sono molto circostanziati. Dopo qualche racconto mi sono abituata un po' al modo di raccontare dell'autore, che ha una prosa elegante, essenziale, ma precisa, che a me, tuttavia, è soprattutto sembrata asettica, distaccata, a tratti un mero resoconto. Ce ne sono alcuni così "abbozzati", così poco dipanati, che mi sono sembrati fatti buttati sulla pagina, quasi come una cronaca da enciclopedia che non si addentra fino al cuore della vicenda, quali per esempio Il morto o Biografia di Tadeo Isidoro Cruz. Sono rimasta interdetta e non mi hanno lasciato niente: non mi sono rimasti impressi, né mi hanno detto niente. Altri racconti hanno solleticato la mia curiosità, invece, per le suggestioni proposte: per esempio I teologi o Emma Zunz; il racconto L'altra morte, poi, l'ho trovato davvero geniale.

I racconti sono infarciti di riferimenti colti o religiosi. L'autore dichiara in prefazione che, salvo due, si tratta di parti della propria fantasia, ma, a mio avviso, non ha le caratteristiche di una narrazione fantastica: non aspettatevi l'assurdo di Calvino, le descrizioni colorite, gli approfondimenti emotivi. L'idea che mi sono fatta è che queste poche pagine siano riflessioni, il pretesto dell'autore per soffermarsi su un tema, su un'idea, da sviscerare, un là per sé e per il lettore per vedere un certo punto di vista, un nuovo aspetto di qualcosa.

La maggior parte dei racconti mi ha lasciata indifferente, quasi perplessa: non mi sono mai sentita coinvolta o appassionata, così che la lettura alla fine non è stata un piacere, anche se non si può parlare di fatica perché le pagine sono davvero poche per ciascun racconto.

Giudizio: non posso davvero dire che mi siano piaciuti, tranne L'altra morte. ⭐⭐

lunedì 8 settembre 2025

Un regalo per tutti coloro che hanno amato La mia famiglia e altri animali

Conoscete Gerry, Leslie, Larry, Margot e mamma Durrell?
No?
Allora finora vi siete fatti un grandissimo torto.

Gerald Durrell è un famoso naturalista inglese, che ha passato la vita a studiare le specie animali e anche a cercare di preservarle; ma soprattutto, è uno scrittore dallo spiccato senso comico che ha trascorso parte dell'infanzia sull'isola di Corfù con la sua famiglia, riportandone le gesta nel romanzo La mia famiglia e altri animali (Adelphi, 368 pag).
Aver letto quest'estate L'isola degli animali (Neri Pozza, 283 pag, il cui titolo inglese, Birds, Beasts and Relatives, rende meglio l'idea) mi dà l'opportunità di parlare di entrambi i romanzi, dal momento che il secondo non è che una raccolta di capitoli bonus: avventure extra, ambientate nello stesso periodo temporale del primo, sicuramente invocate a gran voce dai lettori e di facile guadagno dopo che La mia famiglia e altri animali aveva riscosso tanto successo.


Entrambi i romanzi iniziano con una discussione in famiglia davanti al camino: nel primo libro per convincere mamma Durrell a trasferirsi in un paese meno umido, magari la Grecia, magari L'isola di Corfù. Ne L'isola degli animali, invece, il momento di raccoglimento familiare consente a Gerry di annunciare ai suoi che sta per pubblicare ulteriori episodi sparsi (esilaranti e non dignitosi) del periodo da loro vissuto sull'isola. Non si tratta quindi di un sequel.
Sull'isola la famiglia cambia case, cerca di ambientarsi tra la gente del posto, impara a poco a poco il greco e conosce Spyro, fin da subito il loro factotum, protettore, portafortuna. 
Durrell alterna le strampalate avventure della famiglia alle descrizioni dell'isola, dell'ambiente e della sua passione: la zoologia. Il piccolo Gerry, tra un maestro e l'altro, esplora e annota meticolosamente ogni dettaglio degli animali che incontra e ogni comportamento. 
La convivenza di Gerry con i parenti e dei parenti con gli animali che il bambino si porta a casa è costellata di episodi esilaranti di malintesi, incidenti prevedibili, idiosincrasie dei familiari o delle bestiole.

Durrell ha uno stile estremamente divertente, umoristico, sottile; è molto abile come descrittore sia di paesaggi, sia di situazioni. Anche i personaggi risultano vitali, reali, caratterizzati dalle proprie personalità tanto da poterne quasi prevedere il comportamento. 
La mia famiglia e altri animali, ma anche L'isola degli animali, che sostanzialmente è lo stesso unico romanzo, sono tra i romanzi che mi hanno divertita di più nella mia storia da lettrice e li consiglio spassionatamente a chiunque voglia una lettura leggera e appassionante.

Giudizio: ⭐️⭐️⭐️⭐️ 1/2

Un ottimo romanzo brasiliano sui crimini d'odio, ma non un vero giallo: Il crimine del buon nazista

 Il crimine del buon nazista (Sellerio, 196 pag) di Samir Machado de Machado è il primo giallo, ma anche romanzo in generale, brasiliano che leggo.

L'autore è nostro contemporaneo, ma l'ambientazione della storia è il 1933. Uno Zeppelin tedesco sorvola i cieli brasiliani e a bordo sta la crème de la crème della società nazista (e non) dell'epoca, dal pilota, celebre, ma totalmente contrario al nuovo regime, al funzionario di polizia, Bruno Bruckner, che verrà presto distolto dal suo rilassante viaggio per l'occorrere di un evento delittuoso.


Uno dei passeggeri è infatti ritrovato senza vita nel bagno del dirigibile, al mattino successivo al suo imbarco. La sera prima aveva cenato con altre quattro persone: un medico nazista che compie esperimenti di eugenetica, una snobissima baronessa, un giovanotto inglese di bell'aspetto e dalla lingua pungente e, infine, proprio il poliziotto. L'identità della vittima è dubbia, forse è ebreo, forse omosessuale e potrebbe dunque trattarsi di un crimine di odio.

Il mistery parte in modo classico: scena ristretta ai convitati del pasto, indagini tradizionali, interrogatori di rito e ambientazione che non può che rimandare ai grandi romanzi della Christie che si svolgono su mezzi di trasporto "chiusi" (treno, battello, aereo...); tuttavia la narrazione non è del tutto affidabile, riserva qualche sorpresa e non sono presenti, a mio avviso, tutti gli elementi necessari per capire chi è il colpevole.

Soprattutto, ritengo questo, dato il finale, non un vero giallo, ma proprio un pretesto per parlare di un tema molto preciso, ossia la condizione delle persone omosessuali nella Germania nazista.

Il romanzo è scritto benissimo, molto scorrevole, con un buon lessico e mi è piaciuto molto, ma come romanzo piuttosto che come giallo. Da questo punto di vista sono rimasta un po' scontenta, ma compensa tantissimo con una scrittura davvero piacevole.

Giudizio: ⭐⭐⭐⭐