martedì 30 gennaio 2024

Abboziamola con i libri sugli americani che si sballano: Meno di zero di Bret Easton Ellis

 Si sente spesso lodare una certa letteratura americana che racconta di giovani perduti, che si sbronzano, si drogano e cercano emozioni estreme per uscire dal loro noioso vuoto.

Ho già riassunto il libro di cui sto per parlare, l'osannato Meno di zero di Bret Easton Ellis (Less than zero del 1985, portato in Italia da Einaudi in un libricino di 185 pagine).


Ho faticato non poco a leggermi Il cardellino di Donna Tartt, che già presentava questo problema, per me enorme, ovvero il non rendersi conto, da parte dell'autore, di quanto può risultare noioso per un lettore leggersi pagine e pagine in cui i personaggi non fanno altro che farsi di qualcosa, dall'alcol alle droghe, passando per i farmaci di ogni categoria, e poi restare storditi per altrettante pagine. Fortunatamente per me, in quel romanzo c'era anche altro, come personaggi molto ben costruiti, e il protagonista aveva per lo meno una buonissima scusa, quella di un DSPT con lutto, per giustificare un minimo i suoi comportamenti autolesionisti.

Non è così, o almeno non lo è del tutto, nel libro di Ellis. In questa Los Angeles degli anni Settanta-Ottanta, in cui Clay torna a casa dall'università per quattro settimane di vacanza, tutti quelli che lo circondano non sembrano avere motivi validi per arrivare a distruggersi. E nemmeno lui, tutto sommato. Sono ricchi, spesso con famiglie legate al cinema (padri produttori, madri attrici, etc). La società americana del "tutto si può comprare e tutto è in vendita" è rappresentata nel suo vuoto totale: tutti depressi, soli, annoiati al punto di arrivare a infilarsi in guai molto più grandi di loro o da perdere completamente umanità ed empatia; senza un solo valore, una sola caratteristica positiva che li distingua dalle bestie. A me il tutto ha fatto schifo.

Si può eccepire che fosse l'effetto voluto (e riuscito) dell'autore, ma riguardo allo stile ho comunque da ridire. 

Il racconto è svolto in prima persona dal protagonista, che sui tre quarti del libro si distacca un minimo e sembra provare repulsione almeno per i tre episodi di violenza più estrema che sono introdotti. Tuttavia, pur essendo scritto in prima persona, si tratta meramente dell'elenco di fatti o conversazioni, senza che Clay ci dica mai cosa prova, cosa pensa di fronte al niente che succede. Devo essere io lettore a immaginarmi la profondità del suo pensiero, oppure devo soltanto arrendermi all'evidenza che, pur non condividendo tutto quel che fanno i compagni, non ha niente dentro di sé (come dirà a una sua amica)?

"Io la guardo e non provo niente e me ne vado con il mio gilet."

Questa è la sola affermazione che Clay fa sulle sue emozioni.

Riguardo ai dialoghi, oscillano nella loro qualità: in certi momenti è una sequela infinita di "io dico", "lui dice", "mi dice", "mi fa", "dice...dice...dice..." e non sapevo come continuare in quel nulla cosmico dei dialoghi più noiosi e mal scritti letti nella mia vita. Vedere pagina 9 o pagina 118, così, tanto per fare due esempi sparsi. Sono volutamente scritti così, perché il protagonista è un ignorante (che in teoria sta facendo l'università, ma in effetti, negli USA, se un ricco continua gli studi, in realtà se li sta solo comprando)? Il continuo ripetere che "mi faccio una pista" o "si fa una pista bella lunga" ha un linguaggio poverissimo. Perché? Questo è il personaggio? Se è per adeguarsi al tono dell'opera, allora anche l'opera è poverissima.

E allora, perché a me dovrebbe interessare un personaggio così vuoto e inutile, che rifiuta, ma non troppo, quella vita da stordito californiano figlio di papà, così stanco del nulla, dei familiari e degli amici da non curarsi di altro che delle droghe e di fare giri a caso?

Non parliamo degli amici di Clay, poi. Se è poco caratterizzato lui, figuriamoci la pletora di cortigiani, che sono solo nomi (molti nomi) che fanno cose, spesso poco sensate, se non malvage. Hanno al più dei ruoli e, a seconda di quanto significativo questo, un numero maggiore di pagine, ma li ricordi solo per essere la pseudo-fidanzata, lo spacciatore o il tizio dei soldi. Tutta una serie di Trent, Kim, Alana, etc, non hai idea di chi siano e non te ne importa nemmeno granché, esattamente come non interessa al protagonista.

L'unico personaggio con cui ho empatizzato è il coyote, rendiamoci conto.

Giudizio: la noia⭐⭐

lunedì 29 gennaio 2024

Omicidio in biblioteca: un giallo dall'Australia

 Sulari Gentill è un'autrice australiana che ha pubblicato numerosi libri gialli e thriller, candidati anche ad alcuni premi, ma di cui in Italia non era mai stato edito alcunché fino a Omicidio in biblioteca (Piemme, 2023), libro indipendente, rispetto per esempio ad altri della scrittrice che fanno parte di saghe. Mi ha fatto piacere leggere, credo per la prima volta, un romanzo proveniente da questa nazione.


Questo librotto di 347 pagine è una cosina semplice semplice, molto leggero da leggere, mai noioso, coinvolge a sufficienza per desiderare di leggerlo tutto d'un fiato, ma ha un grosso problema, almeno per me: si scopre subito l'assassino.

La struttura è la caratteristica più interessante del romanzo: prevede tre livelli narrativi. La storia principale è quella di Freddie, scrittrice australiana a Boston con una borsa di studio, che cerca di scrivere un romanzo giallo e siede nella Boston Public Library, cercando ispirazione, quando un grido scuote la biblioteca. Al momento di questo urlo femminile, è seduta con altre tre persone (due ragazzi e una ragazza) e l'evento li fa conoscere. Il giorno dopo, nella biblioteca è ritrovato un cadavere e, forse, l'assassino è una di quelle tre persone con cui sta stringendo amicizia.

"E così andiamo a fare amicizia al Map Room e io 

bevo il mio primo caffè in compagnia di un assassino."

Non è spoiler, è proprio scritto nella trama sulla sovraccoperta e la citazione è a pagina 17, alla fine del primo capitolo. In effetti l'autrice è abbastanza franca e gioca mettendoti a conoscenza dei fatti non appena li scopre il personaggio protagonista.

L'interessante di questo libro è che oltre a questa storia principale ce ne sarebbero altre due su piani sopra e sottostanti. Uso il condizionale perché il giallo che sta scrivendo Freddie in realtà non va da nessuna parte e, forse (diciamo che è un'impressione mia), l'autrice se lo dimentica. Il livello soprastante, invece, è quello della scrittrice che sta scrivendo il romanzo con protagonisti Freddie e i suoi amici e che invia ogni capitolo in lettura a un amico di penna. In realtà è un amico di e-email, anch'esso scrittore, ancorché non pubblicato. Anche in questa corrispondenza si cela un giallo, pure questo palesato prima della metà.

Manca, almeno per me, la struttura del giallo classico: i possibili colpevoli non sono costantemente tenuti tutti sotto la stessa luce, non forniscono elementi di sospetto in modo omogeneo, ossia un po' per ciascuno. Il gioco è pulito fino a un certo punto, perché l'autrice prova a buttare fumo negli occhi, rimangiandosi apparentemente la frase del primo capitolo e utilizza un paio di mezzucci che ormai usano tutti gli autori di mistery. Risultato? Appena capisci quale inganno ti sta tendendo la scrittrice, scopri anche subito l'assassino e non mi ha dato alcuna soddisfazione, alla fine, scoprire che avevo ragione. Preferisco sospettare di tutti, perché tutti hanno un movente per uccidere, e non capirci niente, come quando leggo le storie con Poirot protagonista.

Il finale si svolge molto velocemente, occupa giusto una decina di pagine e non risponde a tutti gli elementi disseminati nel racconto, perché no, l'assassino "l'ha fatto perché non sapeva bene cosa fare" non è assolutamente una motivazione di senso.

La verità è che la maggior parte del libro è dedicata alla parte romance, tra Freddie e uno degli altri personaggi, e a cercare di rendere l'ambientazione molto confortevole.

Giudizio: un gialletto da sufficienza, gradevole da leggere, ma assolutamente non all'altezza, né nella scrittura, né soprattutto nella trama mistery e nel modo in cui sono svolte le indagini ⭐⭐⭐

giovedì 25 gennaio 2024

Carrere racconta l'Affaire Romand: L'avversario

 Un caso di cronaca agghiacciante: un uomo che uccide tutta la sua famiglia, d'adozione e d'origine, e che tenta di uccidere anche l'amante. Perché?

Perché era depresso e voleva farla finita insieme a tutti i suoi cari? Un momento di buio completo? Oppure voleva eliminare tutti i suoi conoscenti perché non scoprissero che lui in realtà non esisteva fuori dal loro sguardo?

Parenti, amici, compagni di università, tutti convinti che quel medico avesse una carriera di successo, ignoravano che invece niente di quello che Jean-Claude raccontava corrispondeva al vero.


Emmanuel Carrère si trova davanti a un arduo compito che chiede lui stesso: cercare il perché Jean-Claude Romand abbia fondato la sua vita sulla menzogna e cosa l'abbia indotto a giungere all'esito finale della storia, una conclusione disumana. Il rimprovero più grande al padre, marito e figlio è quello di stare mentendo anche alla fine della storia, alla sbarra. Cos'ha pianificato Jean-Claude: un omicidio-suicidio non riuscito oppure un omicidio che è stato mascherato malamente? Quell'uomo è un suicida mancato o un cinico assassino? Tra le righe, senza ammetterla completamente, l'autore riesce a dire la sua, il suo pensiero si fa strada sulla carta, tra le parole ed emerge. E non si può che essere d'accordo, specialmente considerando i tempi con cui Romand opera nei giorni fatali.

Leggere questo libro è come scendere in un incubo, di più, all'inferno di chi ha preferito massacrare i propri figli, che far loro scoprire una verità assurda, nella quale non ha vissuto per diciassette anni.

Sono rimasta basita da questa possibilità. Il libro mi ha turbata e mi sono interrogata per giorni su cosa siamo davvero nell'intimo e poi cosa lasciamo che gli altri sappiano di noi. Qualcuno di noi riesce mai a far coincidere essere e apparenza?

Riguardo alla scrittura, probabilmente per via della materia, l'ho trovata un po' caotica. Mi è sembrato che lo scrittore abbia sì dato la sua opinione, nonostante sia stato complesso farlo, ma che non ci sia stato molto altro contributo rispetto a un mero racconto di cronaca. Probabilmente mi occorre leggere qualcos'altro dell'autore per poterlo apprezzare al meglio. 

Giudizio: ⭐⭐⭐ Una storia che fa paura e che fa pensare.

L'adorabile Zia Mame di Patrick Dennis

 Chiariamolo subito: in realtà Patrick Dennis è uno pseudonimo di un giornalista e scrittore che ha scritto molti libri nella sua carriera, Edward Everett Tanner III.


Nel libro Zia mame, però, l'elter ego di Tanner è uno dei protagonisti e narratore in prima persona delle fantomatiche (ma, per anni dalla pubblicazione, credute vere) avventure sue e soprattutto della zia, Mame Dennis, una donna raffinata e sopra le righe, molto all'avanguardia (specchio del futuro più che della sua contemporaneità) per la società dei suoi tempi, che nel romanzo spaziano dagli anni Venti a circa gli anni Cinquanta.

Dennis rimane infatti orfano del conservatorissimo padre e viene affidato alla sorella di questo, che nel testamento raccomanda che il figlio cresca in modo tradizionale, caratteristica che Mame proprio non possedeva. Nascono dunque una serie di esilaranti situazioni, spesso bizzarre. Mame è una donna piena di risorse e idee, senso dell'umorismo, noncurante delle convenzioni, tutti pregi che la mettono in una serie di guai, nei quali è trascinato il nipote. I due si circondano nel corso degli anni di una serie di personaggi altrettanto originali e assurdi, come Ito, Vera e molte altre comparse. Ripercorrendo i cambiamenti di costumi e della società di quei decenni, l'autore fa anche in modo di farci capire le convinzioni politiche di Mame e Patrick, anche queste molto moderne per l'epoca, che ce li avvicinano notevolmente e li mantengono attuali.

La struttura è in avventure episodiche, legate dal confronto che Dennis fa tra la zia e una più tradizionale nonnina, chiamata l'Indimenticabile, di cui ha letto la storia in un immaginario articolo. La scrittura è scorrevole, piacevole e colta, curatissima, con scelte lessicali anche elevate che mi hanno costretto a ricercare diverse parole nel dizionario (e devo dire che non mi capitava da un bel pezzo). Ho riso tantissimo, soprattutto nel capitolo Zia Mame e la bella del Sud, ed è un libro che riesce anche a fare satira su certi lati degli USA di quegli anni. L'affezione ai personaggi è immediata e io non vedo l'ora di leggermi anche il seguito, Intorno al mondo con zia Mame, che dovrebbe essere strutturato in flashback, poiché continua dal finale dell'originale (che per me è stato geniale), ma ricordando avventure che dovrebbero essere accadute a Mame e Pat tra i capitoli Zia Mame in missione di soccorso e Zia mame al campus.

Giudizio: una lettura, raffinata, adorabile e divertentissima ⭐⭐⭐⭐⭐

lunedì 15 gennaio 2024

Cominciare il 2024 con una challenge di lettura

 Quale modo migliore di iniziare il nuovo anno solare se non con una challenge libresca, ancor meglio se a tema Harry Potter?

Si tratta di fittizi esami magici, quelli che Harry sostiene al quinto anno della scuola di Hogwarts: è la Guforeadathonitalia organizzata sul Bookstagram ormai dal 2019. Per superarli, occorre passare dieci materie, leggendo almeno un libro per due materie. Questa la mia maratona di quest'anno.



Poiché, da questa edizione, contavano anche gli audiolibri, ho ascoltato Stai zitta e altre nove frasi che non vogliamo sentire più di Michela Murgia, letto dalla stessa voce dell'autrice. Oltre all'indicibile piacere (e al groppo in gola) di riascoltarla, è stato molto interessante. Non ero digiuna su nessuno dei temi che ha trattato: iniquità; credenze sulle donne; radicate convinzioni sessiste che nel nostro paese costituiscono la norma assoluta, difficili da rimuovere, perché la nostra società ha trascorso così tanto tempo a bagno in questa mentalità, che occorre un lavaggio parecchio profondo per cancellare tanta sporcizia, tanto oscurantismo da bifolchi medioevali, tanto negli uomini, quanto in molte donne. Nondimeno, rinfrescare e approfondire mi ha fatto venire un fegato grosso e ha acceso un gran fuoco, quello che si prova ad ascoltare le ingiustizie.

Le frasi e i contenuti sono collegati l'uno all'altro, per questo un poco il saggio è stato ripetitivo e ha girato un po' in cerchio, ma ha, credo, coperto piuttosto largamente il panorama di frasi a sfondo sessista, che sono rivolte pubblicamente alle donne in contesti di prestigio, di lavoro o anche di perfetta normalità, nei quali tutto si vorrebbe, tranne che essere sminuite, sottovalutate, non credute all'altezza, poiché donne. I commenti beceri; l'essere chiamate senza il proprio titolo accademico, bensì col nome di battesimo; il rifiuto della declinazione al femminile della professione; il cat-calling; il mansplaining; l'essere costantemente ritenute uteri vaganti da fecondare, sulla base di una decisione di qualcun altro, votate solo a diventare madri; il consenso mai chiesto; la differenza di stipendi e molto altro: di tutto questo siamo stanche e non possiamo permetterci di considerare la parità di genere raggiunta.

Murgia ha un lessico ricco e curato, molto efficace e spiega in modo chiaro e limpido i concetti che porta, comprensibile anche per dei bambini, portando anche citazioni pertinenti e precise.

La lettura era perfetta, tra l'altro, per Incantesimi (Crucio: Un libro che ti faccia soffrire per le sue tematiche - amori tossici/igiustizie/drammi) e Difesa contro le arti oscure (Un libro che parli di donne arrabbiate/di lotta contro il patriarcato).

Giudizio: tosto, veleno puro sapendo che queste ingiustizie non sono finite per niente, ma necessario e ben spiegato ⭐⭐⭐ 1/2 

Prestatomi da mia sorella, molto gentilmente (motivo per cui rientrava nella categoria Materializzazione), ho letto anche Horrorstor di Grady Hendrix negli stessi due primi giorni dell'anno in cui ho ascoltato Michela Murgia.

Molto noto per via del suo formato illustrato come se fosse un catalogo Ikea (motivo per cui rientrava nella categoria Cura delle creature magiche - edizioni particolari), il libro è effettivamente ambientato in uno degli store di una catena, Orsk, che sa di essere la brutta copia del marchio svedese di arredamento. Amy è una delle dipendenti, che da pochi mesi è stata trasferita nella sede in cui di notte sembrano capitare strane cose: la mattina i dipendenti ritrovano i mobili distrutti o imbrattati. Quale modo migliore allora per chiarire il mistero, che chiudersi nel negozio dal tramonto all'alba?

Pur non essendo una grande lettrice di horror, o forse proprio per questo, ho trovato la lettura piacevole. Mi ha coinvolta e volevo sapere come andava a finire la vicenda. Mi sono piaciute le vibes, soprattutto iniziali: abbiamo cacciatori di fantasmi e sedute spiritiche. Il finale, sospeso, mi è piaciuto molto.

Forse un briciolino è ripetitivo nel far ripercorrere più volte ai personaggi i corridoi del negozio, ma non mi sono mai annoiata. Mi sono molto piaciute, inoltre, le illustrazioni dei mobili, che subiscono un'evoluzione in parallelo con l'evolversi della storia.

Giudizio: buon romanzo di intrattenimento ⭐⭐⭐⭐

Ho durato molta più fatica nella terza lettura, Giorno di vacanza di Inès Cagnati, letto in quanto mi occorreva un libro per Erbologia (un libro uscito nell'ultimo anno) e per Babbanologia (un libro popolare sui social). In effetti proprio su Instagram ne avevo sentito parlare bene e lo avevo comprato durante l'estate.

Mi è difficile giudicare bene e con oggettività questo testo, perché è il genere di storie che poco destano il mio interesse, ma la scrittura mi è piaciuta abbastanza, senza riuscire tuttavia a coinvolgermi del tutto. Non poche volte, in queste sole 141 pagine, ho avvertito la noia e non sono stata chiamata con insistenza dalla scrittura a proseguire. A un certo punto volevo capire cosa covava sotto, perché te lo domandi abbastanza presto (e io mi ero risposta con due possibilità simili, ma entrambe inesatte). Eppure continuavo a provare stanchezza per la storia, che continua ad inserire episodi su episodi e pare proprio volerla tirare per le lunghe.

La vicenda è quella di Galla, una creatura proveniente dalla miseria più nera, da un ambiente degradato, costellato solo di ignoranza, violenza, cattiverie gratuite. Raccontando di questa domenica in cui torna a casa dal liceo, dove è stata mandata perché aveva attitudine allo studio, in realtà non si riesce a capire bene se è davvero una ragazza intelligente, ma solo spaesata dalla vita di città, a cui si sente e a cui appare estranea, oppure se invece ha qualche problema cognitivo. L'esperienza è stata la stessa nella lettura di Abbiamo sempre vissuto nel castello e di La famiglia Aubrey. Minus o incompresa? Non so rispondere, ma confermo la mia scarsa simpatia per le narrazioni in prima persona, che affaticano il lettore, costretto a domandarsi di continuo se il narratore sta mentendo o se quello che riporta lo vede solo lui o in effetti corrisponde alla realtà. Trovo anche maggiore difficoltà a legarmi e a empatizzare con i protagonisti narratori, costantemente chiedendomi se posso fidarmi delle loro parole, cosa che ho fatto per tutta la lettura in questione. Sarà colpa di Agatha Christie?

In questo romanzo breve, la protagonista torna a casa una domenica, senza avvertire la famiglia, e il racconto ruota intorno a questa visita-non visita. Solo al rientro al liceo, dove alloggia in un dormitorio, ci è svelato lo strano mistero che aleggia per tutte le pagine.

Giudizio: a tratti ho avvertito un po' di noia, ma è comunque una bella penna, che riesce a far percepire abbastanza la desolazione della condizione di Galla. ⭐⭐⭐

Tornando all'horror, sono riuscita a recuperarmi la lettura di Stirpe di lupo di Harold Warner Munn, scrittore americano di weird, molto legato al più celebre Lovecraft. Questo romanzo mi attendava sugli scaffali della libreria da anni, ma non mi ero mai decisa.

La storia ha una struttura abbastanza particolare, costellata di salti temporali, poiché racconta la faida secolare tra la famiglia dei Gunnar e un'entità diabolica, il Signore, che ha deciso di perseguitare tutti i membri di quella famiglia e ridurli a schiavi per vendetta (si scoprirà, leggendo, nei confronti di chi e la sua origine). Il Signore ha poteri malvagi e sconfinati e può trasformarsi e trasformare i suoi servi o i suoi alleati. Pare, inoltre, che sia lui a influenzare tutta la storia degli uomini: sarebbe stato lui la causa della distruzione della Grande Armata, della Guerra dei Trent'anni, della peste di Londra e così via, tutto per la sua faida.

La storia si è sviluppata nel corso degli anni, uscendo sotto forma di racconti a puntate su riviste di settore, successivamente raccolte nel 1979 in due volumi, che hanno costituito il romanzo. Questa storia editoriale si fa sentire molto, a mio parere, poiché i capitoli/racconti sono abbastanza disomogenei fra loro: i primi quattro raccontano l'evolversi della storia di un singolo personaggio, che pertanto all'inizio ci sembra il protagonista; i due capitoli successivi cambiano i personaggi, ma la linea temporale e i collegamenti si mantengono abbastanza. Fin qui il romanzo mi stava piacendo, sia nei contenuti, sia nella scrittura, molto semplice, ma avvincente, pur caratterizzata dai classici mezzi narrativi dell'epoca (tipo un monologo di un personaggio per raccontare fatti che occupano quasi un intero capitolo, così a mo' di raccordo).

A partire dal settimo capitolo, pur essendoci una certo collegamento con il primo nucleo di racconti, cominciano le stonature: la scrittura cambia, diventa meno descrittiva e precisa; la lettura non sempre è stata cristallina per me; i salti, inoltre, sono più ampi. Il nome di un personaggio cambia dal capitolo quarto (Carlos) ai capitoli sette e otto (Jehan). Magari è una variante del nome in inglese (Carlos → Juan  Jehan), poiché il personaggio è spagnolo e questi discendenti girano un po' il mondo e cambiano nome di continuo, però devo dire che non è immediato, né spiegato.

Negli ultimi due capitoli forse la scrittura si è un po' ripresa, ma gli eventi corrono veloci e io ho stentato un po' a stargli dietro (e, tutto sommato, mi ero anche annoiata). Il finale, comunque, mi è abbastanza piaciuto.

Popolato da lupi mannari, vampiri e dallo stesso Signore mutaforma, questo era il libro perfetto per Trasfigurazione e per Volo (in quanto classico del weird), ma non sono rimasta particolarmente soddisfatta.

Giudizio: ⭐⭐

Infine un libro che aspettavo con impazienza di leggere, per interesse e per il fatto di averlo inserito anche nella lista dei 30 libri del mio Scaffale Strabordante a settembre, e che si è rivelato una ciofeca pazzesca. Non è che non me lo aspettassi del tutto: essendomi letta prima il biopic di John Douglas, tra i primi profiler americani, Mindhunter, sapevo che l'ipotesi di Patricia Cornwell era, per lo meno, azzardata e non condivisa e che commetteva probabilmente qualche errore procedurale, oltre ad averci speso non si sa quanti soldi nel tentativo di confermare le proprie teorie. Cornwell ha infatti finanziato numerose indagini di laboratorio su tutto quel su cui ha potuto mettere le mani, tra cui un test sul DNA mitocondriale. I due campioni proverrebbero da, rispettivamente, una lettera dello Squartatore e una del sospettato. La corrispondenza c'è, ma il DNA mitocondriale ha caratteristiche diverse da quello nucleare e una corrispondenza non prova necessariamente che si tratti dello stesso individuo.

Peccato che qui si tratti di ben più di qualche errore procedurale. La nota autrice di gialli ha fatto in Ritratto di un assassino tutto quel che non si dovrebbe mai fare in un'indagine, ossia piegare i fatti alle proprie teorie e non viceversa. Costei si è prima convinta che il celebre pittore tedesco Walter Richard Sickert fosse Jack lo Squartatore e poi si è messa a investigare, distorcendo diversi fattarelli. Per esempio, nelle opere del pittore ci rivede le scene dei delitti di Whitechapel. Ogni linea o macchia è il bordo degli oggetti o un'ombra, no! Sono il segno di uno sgozzamento o di mutilazioni. Studiando i quadri ha trovato le prove della colpevolezza, esattamente come avrebbe potuto farlo se avesse esaminato le macchie di Rorschach: ci ha visto quel che ha voluto, le sue suggestioni. Giunge addirittura ad affermare che quando il pittore è nella sua città natale, Dieppe, e non a Londra, la sua personalità cambia. Non le sfiora la mente che forse si tratta sempre della stessa persona, ma che dipingendo quel che vede, a Londra raffigura prostitute e scene macabre o cupe, mentre tra gli ameni paesaggi tedeschi, la trasposizione riflette questo diverso scenario?

Tra gli errori metodologici di Cornwell: 

  • Il più grave è probabilmente quello di aver considerato ogni lettera arrivata a firma "the Ripper" come autentica, del vero killer, e, per di più, di Sickert. Molte, invece, sono sempre state considerate dei "falsi", scritte da mitomani o da gente, con un pessimo senso dell'umorismo, che forse le trovava degli ottimi scherzi. Quando parla di queste lettere e dei disegni su di esse, che compara a quelli del pittore, non ci viene segnalato a quali lettere Cornwell si riferisca. In ogni caso, dice all'inizio della ricostruzione che ha cambiato idea riguardo alla loro origine e per lei sono tutte buone allo stesso modo.
  • Grave è anche il suo presumere i sentimenti e gli stati d'animo delle persone in esame, sulla base di loro lettere, per esempio di Sickert e la moglie Ellen. 
  • Su altre cose che proprio non può sapere, specula e ricama sopra. Gli interventi subiti da un Sickert bambino ai genitali lo avrebbero lasciato mutilato. Non si sa da cosa tragga questa conclusione (cioè, si sa, da ragionamenti della sua mente). Più tardi, però, queste lesioni, che l'avrebbero reso impotente, movente degli omicidi, gli consentirebbero di commettere adulterio e, forse, perfino di avere figli illegittimi. Peggio ancora, questo esempio: due distinti testimoni parlano di aver visto bazzicare sul luogo del ritrovamento di un ambiguo indizio (lo erano tutti, perché un lembo insanguinato di grembiule avrebbe potuto essere qualunque cosa, collegato o meno ai delitti, non avendo nessun modo di verificarlo) un tizio dalla pelle scura. Sickert poteva benissimo essersi tinto la faccia, obietta l'autrice, come chiunque altro (aggiunge il lettore).
  • Confuta anche la maggior parte della autopsie eseguite sulle vittime (canoniche e non), che sono prese in considerazione in questo libro. Può essere ragionevole farlo, perché le indagini erano svolte con approssimazione, non si disponeva delle moderne tecniche e conoscenze necessarie ad attribuire con accuratezza le cause della morte, ma la nostra scrittrice le contesta in base alle sue supposizioni, che poggiano su testimonianze altrettanto dubbie e comunque riferite in terza mano. Nessuno conosce l'attendibilità delle fonti. Tutto può essere contestato. E non si capisce perché alcune altre autopsie le vanno benissimo, invece, o per lo meno non le confuta. In entrambi i casi, cerca di smontare gli eventuali alibi dell'artista o di stabilire come avrebbe potuto compiere i crimini.
  • Anche il numero di delitti di cui accusare Jack/Sickert sono ampliati rispetto ai canonici cinque (ci può stare, molti hanno discusso di quali e quanti potrebbero essere o meno dello Squartatore). Sono, però, inclusi casi irrisolti/non che arrivano a non avere in comune né vittimologia, né modus operandi, né luogo geografico. Certo, nessuno ha certezza dell'evoluzione criminale del più famoso assassino di sempre e il modus operandi è vero che può mutare nel tempo, ma è curioso che ci siano stati cinque delitti simili concentrati in una finestra temporale così breve e poi più nulla del genere. La firma del killer consterebbe solo delle lettere, che non sappiamo se sono autografe? E poi perché, se è sempre stato libero, Sickert avrebbe smesso di uccidere?
  • Cornwell mette in luce alcune coincidenze, alcuni collegamenti fra le due figure del pittore e del killer, ma senza considerare che, anche se fossero vere, si tratta di cose comuni, che potrebbero condividere anche altri individui: una certa filigrana della carta da lettere; la valigetta Gladstone, vista da testimoni ad alcuni passanti; la conoscenza delle vignette di Judy e Punch, che sono i burattini più conosciuti del regno, tanto che persino oggi li rivediamo nelle rappresentazioni video britanniche. 

Riguardo alla scrittura, l'ho trovata caotica e pesante. Cornwell salta di palo in frasca, non segue né una linea temporale degli eventi, né una divisione sistematica. Non parla prima dei delitti e poi delle lettere, delle biografie dei personaggi, etc. In ogni capitolo si trova un po' di questo e di quello, con la conseguenza che alcuni dati sono ripetuti. Ordine e metodo, chiedeva Poirot? Scordatevelo.

Giudizio: ⭐1/2

mercoledì 3 gennaio 2024

Il cardellino di Donna Tartt è perfetto solo per gli americani?

 Il cardellino di Donna Tartt è stato una lettura impegnativa, non solo per la mole di quasi 900 pagine, ma anche perché, in così tante pagine, è stato quasi inevitabile che ogni tanto la noia si avvertisse.


La storia è quella di un ragazzo, Theo, che a tredici anni perde la sua unica certezza familiare e allo stesso tempo si lega per sempre a un quadro, Il cardellino di Carel Fabritius. Da quel momento sarà un po' sballottato in un'instabilità familiare e relazionale, ma nella sua vita resterà costantemente incombente questo quadro, in un certo senso personaggio che determinerà anche alcune svolte nella vita del protagonista.

Fino all'ultimo non si sa bene dove l'autrice vada a parare, ma infine tutto si ricollega, torna e si avverte un senso (di cui fino a quel momento avevo un po' dubitato).

Personalmente, per lungo tempo, dato il numero di pagine, non riuscivo a capire il senso delle molte parole spese per raccontare le innumerevoli sbronze, perdite di coscienza ed effetti di droghe a cui Tartt sottopone i suoi personaggi. Questa parte e il primissimo capitolo sono stati le fonti maggiori di tedio e disinteresse, mentre, dopo il primo capitolo, ma con qualche rallentamento, la storia prende molto di più. La vita americana, qua soprattutto raccontata come quella di famiglie bene newyorkesi, tra apparenza, antiquariato, cene, aste e droghe, è abbastanza estranea e noiosa ai miei occhi.

Lo stesso protagonista è, al contempo, sia un povero cucciolo ferito da quanto gli è capitato nella vita, tra lutti e DSPT, insieme al quale piangere, sia un debosciato che era già avviato su una via non retta e che poco ha fatto, successivamente, per non abbandonarsi, per chiedere aiuto.

Terminate le lamentele, non posso riconoscere che si tratti di una buona storia, trattata un filino prolissamente, ma non priva di lati positivi (del resto gli è stato riconosciuto un Pulitzer nel 2014, anche se agli americani si può dare un credito limitato).

I personaggi, in genere, sono caratterizzati in modo eccellente e prendono vita e tridimensionalità sulle pagine: sono molto sfaccettati, complessi, approfonditi. Nessuno di loro, a partire dal protagonista, che appunto è grigio, è connotato da una sola qualità o difetto. A eccezione del buon Hobie (che è in effetti il mio preferito) e, forse, di Pippa, nessuno è completamente buono o del tutto un cattivo soggetto, neppure il padre di Theo.

I sentimenti di Theo sono passati al microscopio e rigirati da ogni lato come calzini, pertanto giungiamo a conoscerlo quasi intimamente: per questo, in modo riuscitissimo, empatizziamo con lui nei dolori e nelle speranze, con, almeno per me, le eccezioni sopramenzionate (senza scendere nei dettagli per minimizzare gli spoiler). In quelle occasioni l'avrei volentieri schiaffeggiato, perché smettesse di comportarsi in modo così masochista, ma in molte altre mi sono commossa o emozionata con lui. Tutto questo non fa che provare l'ottimo lavoro della scrittrice, che ha curato moltissimo l'interiorità e la complessità di Theo. Ci trascina nei tortuosi labirinti in cui si infila il nostro ragazzo, un po' da solo, un po' favorito nella sua fragilità dagli eventi. Chapeau.

La storia ha un finale aperto, caratteristica che ho apprezzato, perché posso decidere autonomamente quanto lieto o meno sarà il futuro di Theo, in base al percorso che ha fatto nel romanzo, compresa una svolta notevole a un certo punto. Infatti, al riguardo sono ottimista, altrimenti queste 900 pagine sarebbero davvero state inutili (e non credo lo sopporterei), se nulla fosse cambiato, ma, appunto, ogni lettore ha margine per decidere secondo il suo modo di vedere il testo e la vita in genere. Tuttavia, il finale è anche stato gravato da alcuni spiegoni sul senso della vita da parte di alcuni personaggi e l'ho trovato un modo un pochino troppo didascalico per dare una morale conclusiva a tutta la storia.

Riguardo la scrittura, è molto alta, specialmente in certi momenti del romanzo, ma non è scevra da lungaggini e, come già detto, un pelo prolissa (o non si spiegherebbe la lunghezza del romanzo).

Cosa mi è piaciuto: ottima scrittura; personaggi meravigliosamente caratterizzati, vivi; rapporto di amore-odio col protagonista; commozione frequente; Hobie; finale aperto.

Cosa non mi è piaciuto: certi parti della storia non sono state di mio interesse; rapporto di amore-odio col protagonista; un filo di noia e di prolissità; finale didascalico.

Giudizio: ⭐⭐⭐3/4

martedì 2 gennaio 2024

Best of 2023: Quel che si vede da qui di Mariana Leky

 In realtà, ho finito questo libro nell'aprile 2023, ma trovare le parole per spiegare perché mi è piaciuto così tanto, tanto da poter quasi entrare tra i miei preferiti di sempre, non è facile. Così ho rimandato fino a che non ho deciso che era stato la mia lettura preferita dell'anno appena trascorso.

A fianco a lui potrei mettere solo Donna al buio, La vera storia del pirata Long John Silver, Marcovaldo, Assassino torna da me!, Blues per cuori fuorilegge e vecchie puttane.


Il libro della Leky era entrato nei miei radar leggendo i libri della Piccola Farmacia Letteraria, poiché la protagonista Blu e, verosimilmente, la libraia della corrispettiva libreria fiorentina lo consigliano costantemente.

Non fidandomi dei gusti di chi scrive piuttosto che in modo disgiuntivo, non lo avrei preso in considerazione, se non mi fosse stato regalato (comperandolo proprio in quella libreria!).

Probabilmente i gusti sono superiori alla scrittura e, obiettivamente, era parecchio che non leggevo un romanzo che potesse conquistare il mio cuore.

La scrittura è stata piacevole e anche aulica, in un certo senso, pur raffigurando un mondo e dei personaggi il più vicini possibile all'essere usciti direttamente da una fiaba.

La nonna Selma e l'Ottico (che ha un segreto degno di Florentino Ariza), Luise e Martin, gli svampiti genitori di Luise, le strampalate Elsbeth e Marlies, il pericoloso Palm sono solo alcuni dei personaggi magici che popolano il paese di cui si narrano le avventure.

La  protagonista e narratrice è Luise, che nella prima parte è una bambina, che apprende il mondo dagli insegnamenti della nonna e dell'Ottico e dagli incontri con gli stravaganti abitanti del villaggio. Nella seconda parte, invece, è adulta e dovrà imparare a convivere con una nuova esperienza: l'amore.

I personaggi dell'originale, forte e amorevole Selma e dell'Ottico, devoto, insicuro e sempre presente per i due bambini di questa storia, bucano le pagine e toccano direttamente il cuore, sconquassandolo per sempre. Ho apprezzato meno Luise, solo perché le narrazioni in prima persona un po' forse fanno distaccare dal protagonista, e soprattutto perché divenendo adulta spezza quell'onirico che caratterizzava la prima metà del romanzo. I suoi rapporti con amici e parenti, comunque, sono il fulcro delle vicende e, di fatto, ciò che rendono magica questa storia, rubando anche qualche lacrima lungo la lettura.

Devo dire che a travolgermi è stata la prima parte del libro, che introduce un mondo sospeso fra realtà e incanto, pieno di trovate originali e divertenti, ma anche dolcissime. La seconda parte mi è piaciuta meno, perché perde un po' quell'alone di irrealtà e diviene quasi un qualunque romanzo d'amore, rimanendo comunque divertente e anticonformista: è sostanzialmente questo il motivo per cui, pur confermandosi per me un romanzo bellissimo, non riesce a salire fino alla casta dei preferiti.

Giudizio: ⭐⭐⭐⭐⭐

Com'è difficile recensire Moby Dick di Herman Melville

 Il celebre libro sulla famigerata balena bianca che turbava la mente dell'altrettanto famoso capitano Achab, interpretato da Gregory Peck nel film di John Huston del 1956 (adattato dal romanzo nientemeno che da Ray Bradbury), è citato continuamente in libri, film e telefilm.


Me lo sono ritrovata guardando The Whale e Una mamma per amica, quando Rory prende l'incipit per descrivere un suo bisogno di evasione, e, curiosamente, perfino mentre, in parallelo proprio a Moby Dick, stavo leggendo anche Il cardellino, quando Theo cita i tre ramponieri del Pequod.

Si tratta di uno dei primi grandi romanzi americani: Melville ne pubblicò due diverse versioni, una in Inghilterra e una negli USA, nel 1951. Mi domando se sia questo il motivo per il quale il libro è così celebrato dagli statunitensi, ovvero perché prima di Moby Dick c'era ben poco da accludere nella propria letteratura, dato che sono una nazione molto giovane, nata da appena 75 anni al momento della pubblicazione dell'opera.

Frecciatine a parte, è bene chiarire subito un punto: Moby Dick non è propriamente un romanzo d'avventura. È un saggio sulla pesca delle balene in cui ogni tanto c'è una digressione narrativa, un pezzetto della storia che serve come scusa per parlare di balene, baleniere, armi e metodi con cui si uccidono, si squartano e si usano le balene, orrendi dettagli compresi, e non il contrario.

Se qualcuno vi ha detto che Moby Dick è la storia dell'ossessione di Achab per la sua bianca nemesi con alcune digressioni un po' noiose e prolisse, non credetegli. Achab si vede poco, ma Moby Dick ancora meno, anche se la sua assenza è costantemente presente per i personaggi. È Melville per qualche ragione ossessionato con le balene: forse da bambino se non si comportava bene lo minacciavano di farlo mangiare a un capodoglio? Non lo so, ma di certo ogni dettaglio che le riguardasse, anche palesemente non corretto dal punto di vista scientifico, (no, Herman, non sono pesci e i tuoi contemporanei lo sapevano benissimo, ma te sei uno zuccone evidentemente), ce l'ha voluto raccontare.

La storia inizia da Ismaele, che è un personaggio reale soltanto nei primi capitoli, quelli che precedono la partenza del Pequod, dopodiché diventa esclusivamente cronista di quel che accade sulla nave e non parla praticamente più di quel che fa lui a bordo.

Ismaele si reca prima a New Bedford, dove incontra un personaggio straordinario, il ramponiere e cannibale Queequeg, di cui diviene amico. I due si dirigono poi a Nantucket, dove si imbarcano sul Pequod, una baleniera capitanata dal misterioso Achab, che nell'ultimo viaggio ha perso una gamba, strappatagli da una balena che l'uomo descriverà come dotata di raziocinio e capacità di pianificare attacchi mirati a uccidere i suoi cacciatori: un mostro dalla gobba bianca, dalla fronte rugosa, con molti arpioni piantati nel corpo, tra cui i suoi. Il viaggio di Achab, personaggio straordinario, dalla tempra inossidabile, è votato unicamente a trovare e a uccidere quel capodoglio, che alcuni chiamano Moby Dick. L'uomo è ossessionato dalla balena e trascinerà tutto l'equipaggio della nave nella sua folle caccia, votata, come il suo rampone bagnato nel sangue dei ramponieri (in un passaggio bellissimo del capitolo 113), al diavolo.


Nell'epoca in cui Melville scrive, la balena era ritenuta nient'altro che una creatura mostruosa e una fonte di olio da lampade o, al più, di carne. Non stupisce, quindi, che particolari agghiaccianti della fine di questi grandi cetacei, comprese uccisioni vane, o frasi come

"Perché in quei momenti vi trovate intorno più balene di quante possiate ammazzarne in una volta. Ma i capodogli non si incontrano tutti i giorni; se accade che ne incontriate, allora dovete ucciderne quanti più potete. E se non potete ucciderli tutti subito, dovete ferirli, in modo da poterli uccidere poi a comodo vostro."

che sono perfettamente normali per la sensibilità dell'epoca, risultino, però, abbastanza ostiche per la nostra.

Inoltre si tratta di un epoca razzista e forse dipende da questo che la creazione di un personaggio come Queequeg, che viene dotato di ascendenze reali e modi eroici, non esiti poi in niente più: il fatto che sia pagano e di una etnia che per i bianchi statunitensi era solo "di selvaggi" comporta che il suo ciclo narrativo venga abbandonato? Oppure Melville era superiore all'ideologia del suo tempo, ma la storia del portentoso Queequeg è sacrificata, come tutto il resto, alla furiosa grandezza di Achab?

Mi resta questo dubbio, anche se il finale mi ha sbilanciata verso la seconda ipotesi, ma non posso che accontentarmi delle ultime parole del capitolo 110.

Più o meno da quel capitolo, il romanzo cambia sensibilmente: giunge verso la conclusione e, dunque. il suo culmine. Entra in scena il dramma di Achab. Finalmente si prende la scena in modo pieno e alcuni capitoli, come il 123, il 128, il 129 e forse soprattutto il 132, sono veramente stupendi. In queste poche pagine, che forse valgono la fatica di averle cercate in tutte le altre, è raccontato in modo struggente fino a che punto la follia di Achab lo ha reso cieco a tutto e tutti e come la conclusione della storia fosse già disegnata e impossibile da modificare: un fato già segnato dal suo desiderio di vendetta.

Per questi sei capitoletti che ho adorato e che mi hanno emozionata, ci sono, però, nei primi tre quarti del libro, non meno di una trentina di capitoli veramente poco attinenti alla storia: si tratta dei capitoli che raccontano della classificazione delle balene o delle parti della baleniera o delle lance. Inoltre, prima della partenza del Pequod, molti capitoli sono destinati alle profezie bibliche sulle sorti del viaggio o alla messa, quella a New Bedford di Padre Mapple, interpretato nientemeno che da Orson Welles nel film di Houston.

Se non bastassero questi capitoli interamente dedicati a temi non inerenti la storia (oppure sì, è il caso dei riferimenti biblici, ma c'è comunque un abuso di metafore), anche nei momenti di racconto, Melville è prolisso, usa similitudini ogni pagina, e compie digressioni continue. Molti racconti sono interrotti da una precisazione, uno spiegone o un cambio di discorso. È plateale il caso del racconto del Town-Ho, in cui Melville abbandona la narrazione nel punto più interessante e succoso e si mette a parlare di canalesi e altro per più di una pagina, prima di tornare alla storia.

I dialoghi sono spesso incomprensibili o conditi da battute grezze (benedetti americani). Tutti quelli tra i marinai e spesso anche quelli degli ufficiali non mi piacciono e non mi divertono.

Ho letto il libro sulla traduzione di Pietro Meneghelli per Newton Compton Editori, ma alcuni capitoli li ho affrontati grazie all'audiolibro letto da Piero Baldini (che ha realizzato un'eccellente lettura) nella traduzione di Alberto Rossatti per Il narratore. Nessuna delle due traduzioni è malvagia, ma forse sarebbe interessante leggere quella storica di Cesare Pavese o quella di Ottavio Fatica per Einaudi, per vedere se i dialoghi migliorano. Sicuramente la lettura sull'edizione Mammut ha aggiunto fatica all'impresa a causa della ben nota compattazione grafica, che infatti impiega solo 474 pagine.

In ogni caso non sono tanto sicura di cimentarmi una seconda volta nella lettura, se non forse di qualche riduzione o di una breve selezione di capitoli, perché è stato faticoso, noioso e spesso ho saltato paragrafi e pure qualche capitolo.

Tuttavia non posso negare che il fulcro dell'opera è struggente, tormentato e bellissimo. In mezzo alle chiacchere, agli sproloqui e alla saggistica, Melville ha creato uno scontro immortale e non tanto tra un uomo e il suo nemico che soffia spuma, ma tra un uomo e sé stesso: qualcosa di meraviglioso, che strappa più di una lacrima.

Giudizio: devo dividerlo a metà, perché prendendolo nel complesso, in un unico giudizio, non sarei giusta con nessuna delle parti. Ho odiato la parte di "saggistica" a cui forse da sola non darei due stelle, ma mi sono piaciute le parte raccontate (l'incontro tra Ismaele e Queequeg, il racconto -per quanto interrotto- del Town-Ho, la storia della Rachele) e ho amato i capitoli già menzionati, a cui ne darei non meno di quattro. Vale la pena affrontare tutta l'opera per quel pugnello di pagine?

Non lo so, forse dovreste avere la pazienza di provare come me e decidere da soli, oppure seguire il consiglio che mi diede mia sorella (e che non ho seguito) di leggerlo in riduzione. Aveva ragione che non ci avrei perso nulla, ma io volevo scoprirlo da me.

Canto di Natale & Co: i racconti di fantasmi di Charles Dickens

 Charles Dickens non è stato un prolifico autore di storie di fantasmi, ma, periodicamente, nelle sue e in altrui riviste ha fatto uscire diversi e apprezzati racconti sul tema, il più famoso dei quali è senza dubbio, il Canto di Natale.

Questo dicembre mi sono immersa nell'atmosfera gotica e magica creata dall'autore inglese con Da leggersi all'imbrunire e Canto di Natale, primi miei approcci a questa illustre penna.

La prima è una raccolta, edita da Einaudi, di racconti apparsi in riviste o tratti da opere come Il circolo Pickwick.

I racconti variano molto per lunghezza e contesto. Alcuni sono proprio estrapolati da contesti più ampi e, talora, si nota. Alcuni sono più riusciti, altri meno, ma in tutti si ritrova una narrazione piacevole da seguire e un senso dell'umorismo inconfondibile. Per questo, molto più che essere spaventosi, i racconti sono soprattutto molto divertenti. Alcuni temi, come la promessa fra congiunti di tornare a farsi vivi dopo la morte, o l'apparizione di uno spettro a un conoscente proprio mentre il proprietario lasciava questo mondo, ritornano spesso. Si ritrovano anche nell'appendice conclusiva, dove sono riportati racconti di predecessori o coevi di Dickens, che analogamente a lui si erano cimentati con gli stessi topoi.

Il mio preferito, come atmosfera, dei racconti presentati in questa raccolta, è probabilmente il primo capitolo della La casa infestata, che promette un esperimento sull'osservazione delle presenze in una vecchia e abbandonata casa. Il tema precede molte altre produzioni a venire, tra cui per esempio L'incubo di Hill House di Shirley Jackson, ma ha un'evoluzione completamente diversa e più vicina a quanto assistiamo durante una delle apparizioni degli spiriti in Canto di Natale.

Giudizio: ⭐⭐⭐⭐ Ho giudicato la lettura estremamente piacevole e i racconti mi sono piaciuti quasi tutti.


Per questo mi sono buttata a capofitto subito dopo nella lettura dell'opera forse più nota dell'autore, prima ancora di Oliver Twist.

Ho letto Canto di Natale grazie all'abbonamento gratis per due mesi di Kindle Unlimited, nella bellissima edizione Rizzoli, illustrata da Iacopo Bruno.

Si tratta di un racconto lungo, la cui trama potrebbe anche essere superflua, poiché chiunque viene a conoscenza della storia prima ancora di mettere le mani sul libro. Da bambina ho visto non meno di tre differenti adattamenti animati di questo racconto: a partire dal più celebre Canto di Natale di Topolino della Disney, che ha avuto il genio di creare un vero Ebenezer in Paperon de Paperoni, passando per Concerto di Natale con i Flintstones e almeno una versione cantata che non riesco a ricordare con precisione, prima del film del 2009 che ha Jim Carrey come Scrooge. E non conto tutte le versioni che non ho mai visto, da Barbie ai Looney Tunes.

Ebenezer Scrooge, come il suo socio Marley, morto ormai da sette anni, è un uomo svuotato da ogni sentimento e interessato solo al profitto, che da buon taccagno non divide con nessuno, pagando una miseria anche il suo impiegato Bob Cratchit, che ha una numerosa famiglia da mantenere, tra cui un bambino malato e storpio (il celebre Tim). Una vigilia di Natale, però, riceve una spettrale visita, quella dello spirito di Marley, che si commisera per l'attuale sorte e gli offre una speranza di redenzione: gli appariranno altri tre spiriti, quello del Natale Passato, Presente e Futuro. Gli spiriti permetteranno a Scrooge di riflettere proprio su quanto gli era capitato, sulla situazione presente e su cosa potrebbe accadere un giorno. Da queste visioni, l'uomo trarrà molti insegnamenti per cambiare la sua vita.

Giudizio: una storia molto dolce e piena di speranza, che conoscevo già, e che infatti non viene mai cambiata nella sua trasposizione, probabilmente perché non gli occorre altro. ⭐⭐⭐⭐