mercoledì 31 luglio 2024

L'appassionante secondo romanzo di Anne Brontë: La signora di Wildfell Hall

 Il mio secondo incontro con le sorelle Brontë passa attraverso La signora di Wildfell Hall (1848), secondo e ultimo romanzo (morirà l'anno dopo) della meno nota e più giovane sorella del trio, Anne.

Ho letto il romanzo (da pag 1397 a pag 1662) nell'edizione Mammut della Newton Compton, che comprende tutti i romanzi delle Brontë.


Nello stile del romanzo epistolare, la narrazione della storia avviene come se il protagonista, Gilbert Markham, stesse scrivendo una lunga lettera - o una serie di lettere - a suo cognato, il marito di sua sorella, Jack Halford. Attraverso le epistole (e poi stralci di un diario) è svelato il mistero dietro alla misteriosa vedova che prende in affitto la vecchia e malmessa Wildfell Hall, portandosi dietro il figlio di cinque anni e una domestica. La donna sembra molto sofisticata, ma anche molto schiva nei confronti del vicinato e si comporta in modo così sospetto da suscitare voci sul suo conto. Sarebbe un vero peccato svelare di più sull'identità della donna, sul suo segreto (lo avevo capito a pag 1407? sì) e sugli eventi che coinvolgeranno la piccolissima comunità agricola di vicini pettegoli, così mi limiterò a esporre come mai mi è piaciuto così tanto questo romanzo.

Per prima cosa, come il romanzo della sorella Emily, è una storia di tormentati amori e sentimenti nobili, che scorre molto bene. 

La protagonista della storia, Helen, è un bel personaggio, forte, salda grazie alle proprie virtù morali, sebbene non carico di sfumature, anzi, molto (fin troppo - a tratti Lucia Mondella, a tratti martire) legata alla sua fede, vera guida negli avvenimenti che costituiscono la sua vita. Tuttavia Helen non si affida alla Provvidenza e resta sempre presente a sé stessa, pur in mezzo alle sofferenze, e capace di tenere sempre la testa alta e una soluzione in tasca. Helen è assertiva e mai succube, se non in quanto donna, privata dunque di certi diritti propri (allora) dell'altro sesso.

Il racconto della sua storia occupa la parte centrale del libro e svelerà in poco tempo i misteri che l'avvolgono, lasciando spazio a una storia molto triste, quasi dolorosa da leggere in certi momenti (sono descritte proprio delle violenze psicologiche e non solo). 

In tempi attuali diremmo che è una storia femminista e di denuncia del patriarcato e, in effetti, lo è, sebbene Anne Brontë non sapesse che oggi avremmo chiamato così il quadro che ha descritto: impossibilità di scegliere del proprio destino da figlia, ma soprattutto da moglie; dovere di sottoporsi a qualunque scelta, azione o sopruso del coniuge; impossibilità di indipendenza economica. Al contrario un marito ha assoluto potere di dissipare i propri averi o il proprio benessere nel modo che ritiene più opportuno, senza ritener necessario ascoltare la propria compagna. Niente di nuovo in tutto questo, eppure mi ha colpito che questi lati coniugali fossero così lucidamente descritti da una ragazza che non è mai stata sposata, né lo sono state le sorelle finché lei ha vissuto. Naturalmente alla sua uscita il romanzo destò scalpore.

Questa parte del racconto è stata anche la mia preferita e mi è persino dispiaciuto tornare al primo narratore, ossia Gilbert, che ho trovato veramente un personaggio piatto e meschino, anche se dovrebbe ricoprire un ruolo di tutt'altro genere. Non mi sono piaciuti i suoi atteggiamenti e comportamenti nel corso del romanzo. Dovrò ritenere che i personaggi maschili scritti dalle sorelle Brontë, anche quando non sono manifestamente cattivi, abbiano subito veramente una pessima influenza del fratello Branwell.

Gilbert potrebbe risentire, comunque, del poco spazio dedicatogli, oltre che della prima persona. Al contrario gli altri personaggi descritti nella parte centrale (seppur in prima persona) sono tratteggiati in modo abbastanza approfondito e molti di loro evolvono nel corso della storia.

In conclusione, ho trovato una storia appassionante, che tocca alcuni temi scottanti e che mi ha regalato un personaggio femminile che ho molto apprezzato.

Giudizio: ⭐⭐⭐⭐ 1/2

lunedì 15 luglio 2024

Il viaggio intorno al mondo di Malachy Tallack, lungo il sessantesimo parallelo

 Il racconto di viaggio Il grande Nord (Iperborea, 244 pagine) è stato scritto dal giornalista britannico Malachy Tallack, che ha vissuto prevalentemente in Scozia, tra le isole Shetland, Fair Isle ed Edimburgo, e racconta della sua decisione di compiere un viaggio intorno al mondo, all'altezza del 60° parallelo.


Il motivo che spinge lo scrittore in questa direzione è da ricercarsi in una sorta di "vocazione nordica", un bisogno impellente di ricercare la sua appartenenza in qualche parte del mondo. Si tratta, in effetti, di un testo quasi intimo. Tallack sembra partire alla ricerca più di sé stesso (che è un po' quello che facciamo sempre quando ci mettiamo davvero in viaggio) che del senso di "nordicità". Racconta della sua vita, seppure senza scendere nei dettagli (per esempio non menziona le sue relazioni amorose, se non quasi di sfuggita, mentre dedica spazio al legame col padre, che influenza il paese di residenza), ponendo al centro, i posti in cui ha viaggiato e, soprattutto vissuto. Sembra utilizzare il luogo in cui vive come lente attraverso la quale leggersi, forse scoprirsi. Vuole identificarsi col luogo in cui abita, rivestendo la scelta di tale luogo di un'importanza cruciale. Dedica dunque molto tempo a spiegare il perché dei suoi spostamenti e cambi di residenza. Sono dovuti a cause familiari e lavorative, ma sembra anche esserci una certa smania, qualcosa di recondito, forse proprio una chiamata verso il Nord.

Seguendo questa chiamata, Tallack parte dalle Shetland, precisamente da Mousa, e percorre idealmente il 60° parallelo verso ovest, toccando la Groenlandia, il Canada, l'Alaska, la Siberia, San Pietroburgo, la Finlandia, le isole Aland, la Svezia e la Norvegia, per poi tornare, come un novello Ulisse, alle Shetland, passando dalla Scozia.


In ciascuno di questi paesi, lo scrittore cerca di individuare la loro natura, cerca di comprenderli, con occhio neutrale e, sorprendentemente, ma non troppo, non occidentale. Ripercorrendo, per esempio, la storia della colonizzazione europea della Groenlandia o del Nord America, Tallack spiega il diverso modo di vivere di indigeni e nuovi arrivati, il loro scontro e il tentativo di far sparire popolazione e vecchie tradizioni. Ho appreso molto, per esempio, sugli Inuit e di come il loro vivere da cacciatori abbia resistito al cambiamento nei secoli, salvo scontrarsi col nuovo perbenismo capitalista che vede, adesso, la caccia come sbagliata, nell'ipocrisia di un finto ambientalismo e malgrado l'ecosistema Inuit sia sempre rimasto in equilibrio, nonostante la caccia.

Un'altra riflessione molto interessante a quelle latitudini in Groenlandia, ma non solo, è quello della proprietà privata, altro terreno di scontro fra capitalismo e società che vivono in equilibrio con la Natura, che ritengono impossibile e contrario a ogni logica che ogni porzione di terra debba appartenere a qualcuno e che non sia, piuttosto, di libero accesso e utilizzo per tutti.

Queste sono solo un paio di spunti di riflessione forniti dal testo, forse quelli che mi hanno maggiormente colpita nella lettura. In effetti l'autore spazia dalla storia antropologica, sociale e naturale ai paesaggi, passando per la storia dei luoghi e per usi e consuetudini dei paesi attraversati.

Si tratta dunque di un libro molto ricco di materiale, forse da tenere persino per consultazione. La scrittura è non solo descrittiva, ma anche molto riflessiva e, in alcuni momenti, persino malinconica. Ha reso davvero il senso di recherche dell'autore e la sua urgenza di scoprire il Nord e scoprire sé stesso attraverso il viaggio, arrivando a essere fin quasi troppo personale per un racconto di viaggio. 

Giudizio: ⭐⭐⭐

domenica 7 luglio 2024

Attenzione ai libri divulgazione quali Il pensiero Giapponese

 La cultura giapponese esercita un fascino potente su di me, probabilmente perché è così distante e diversa da quella occidentale. Mi strega, mi incuriosisce e ogni tanto leggo qualche librino (per interesse personale, principalmente sull'Ikigai) che dovrebbe aiutarmi ad addentrarmi nel mondo e nella mente dei giapponesi, ma ogni volta la sensazione è che ne intravedo i contorni, ma non ne afferro completamente la sostanza. Così è stato anche per Il pensiero giapponese - Viaggio nello stile di vita del Sol Levante (Le Yen Mai per Giunti, 303 pagine), dalla cui lettura voglio trarre una piccolissima riflessione.


La collana della Giunti Il pensiero ... (sostituire ai puntini una nazionalità) è composta da piccole "guide" ad alcuni concetti famosi dei paesi che si vogliono illustrare. Hanno grafiche molto carine e gli autori dovrebbero essere degli esperti del paese di cui parlano. Non posso parlare per gli altri volumi della raccolta, ma in questo sul Giappone qualcosa non mi ha quadrato.

Chi è l'autrice? La prima cosa che mi colpisce è che la scrittrice ha origini vietnamite, ma di fatto è europea, essendo nata, cresciuta e avendo lavorato in grandi città, quali Zurigo, Parigi, Milano. Quindi, la mia prima preoccupazione è che conosca ciò che mi spiega nel manuale solo per averlo imparato da altri.

Com'è strutturato il libro? Ci sono 15 capitoletti, ognuno incentrato su un aspetto della cultura giapponese: alcuni di cui abbiamo sentito parlare negli ultimi anni (mi verrebbe quasi da dire "di moda", wabi sabi, kintsugi, ikigai), altri meno conosciuti. Nell'introduzione l'autrice spiega che sta compiendo un viaggio nella regione del Kansai, compresa Kyoto e a ognuno dei temi che spiega nei capitoli è collegato uno dei luoghi che ha visitato.

Come sono i contenuti? Oggettivamente, si tratta di un'infarinatura di nozioni base per ognuna delle parole, per ognuno dei concetti che il testo propone. La scrittrice cerca di trasmettere la sensazione e il senso di quella parola, di quell'idea, con molti esempi e prova anche a specificarne le sfaccettature. Nel quadro d'insieme i valori che guidano il mondo giapponese si intuiscono: la ricerca della bellezza nelle piccole cose, il cammino costante, lento, ma inesorabile verso il miglioramento, l'essere focalizzati sul prossimo, prima che su stessi, la gratitudine...Il ritratto di questo popolo lo mostra saggio e profondo, più staccato dalla materialità dell'Occidente capitalista, molto più spirituale.

Trovo che siano concetti molto nobili, che mi hanno fornito spunti di riflessione sul mio stile di vita e sull'opportunità di adottare anche lenti e punti di vista differenti e, persino, forse, di applicare alcuni degli insegnamenti anche nel mio quotidiano. Considerare come unico modo possibile di vivere quello che imporrebbe la nostra società è un modo ingenuo e limitato di pensare e sto cercando di discostarmici da anni, anche se non è così semplice, principalmente perché siamo circondati da stimoli opposti. Non è una questione di essere giudicati da chi ci circonda, ma banalmente viviamo immersi nel capitalismo, con pressioni costanti all'acquisto di beni, che tutto sommato sono superflui, ma che dovrebbero rappresentare la dotazione minima necessaria per non avere uno status da paria. Per fortuna sempre più leggiamo anche altre narrazioni e le influenze cominciano ad avere anche voci differenti e discordi. 

Tornando al libro, comunque, si nota un'altra cosa nella lettura: i concetti sono molto belli sulla carta, ma non si fa cenno del risvolto negativo che alcuni di questi portano sicuramente con sé. Abbiamo l'idea che i giapponesi siano molto esigenti e perfezionisti e queste pagine, come altre che ho letto, ne darebbero conferma. Sul lato psicologico tutto questo ha un costo: il rischio di non sentirsi all'altezza della loro società, del loro modo di vivere. Dover procedere con costanza sulla strada della perfezione fa sì anche che fallire non è una possibilità. Sappiamo anche che il Giappone ha un tasso di suicidi molto alto, ed è qualcosa con cui fare i conti. Anche l'aspetto culturale che pone al centro gli altri, mettendo sé in secondo piano ha il suo lato negativo ed è qualcosa contro cui la nostra società ha combattuto per decenni.

 In conclusione, trovo che questo manuale offra degli spunti molto interessanti e che fornisca un piccolo glossario relativamente ad alcuni dei temi giapponesi che ci affascinano tanto, ma che si tratti di una disamina abbastanza di superficie, che condensa ciascun concetto in poche pagine, senza andare in profondità e affrontarne i possibili risvolti negativi. Probabilmente per ciascuno degli argomenti trattati occorre trovare qualche monografia, possibilmente scritta da autori giapponesi o che, perlomeno, ci vivono da anni.

Giudizio: ⭐⭐ 1/2

mercoledì 3 luglio 2024

Tre storie in giallo di Wilkie Collins

 Quest'anno, dopo tanto rimandare, ho approcciato la favolosa penna del padre della letteratura gialla, nientemeno che Wilkie Collins e me ne sono innamorata. Soprattutto in La donna in Bianco (1859) e La pietra di luna (1868) ho apprezzato il modo magistrale con cui sono organizzate le trame, affinché tutto torni, alla fine delle molte puntate.

Quando ho trovato su una bancarella dell'usato Tre storie in giallo, edito da Sellerio, appena 87 pagine più un piccolo approfondimento, non ho potuto lasciarlo lì.


Come specifica il titolo, si tratta di tre brevi racconti.

Il primo e più lungo, Chi ha ucciso John Zebedee? (1881), racconta quasi un delitto della porta chiusa: una coppia va a dormire e nel cuore della notte si scopre che il marito è morto pugnalato e la moglie è convinta di essere l'assassina. La storia, ormai passata, è riferita da uno degli agenti che aveva lavorato al caso a suo tempo. Da un punto di vista etico, non mi è piaciuta la conclusione del racconto. Colpa, probabilmente, della lente troppo moderna con cui mi sono approcciata alla lettura.

Gli altri due racconti, seppure più brevi e molto semplici nella struttura, mi sono piaciuti di più: li ho trovati molto coinvolgenti.

La lettera rubata (A Stolen Letter, 1854) vede protagonista un avvocato che cerca di aiutare un amico nei guai a causa, appunto, di una lettera compromettente, scritta dal fu padre della sua futura sposa. Già nel 1845 Edgar Allan Poe aveva trattato una vicenda analoga (il recupero di una missiva scottante) nel terzo racconto del detective Auguste Dupin, La lettera rubata (The Purloined Letter). Successivamente questo topos è stato riutilizzato anche da Sir Arthur Conan Doyl in Uno scandalo in Boemia (1891) e da Agatha Christie in La dama velata (dalla raccolta I primi casi di Poirot del 1974). In ogni caso c'è sempre un protagonista o un detective pronto a togliere le castagne dal fuoco del suo cliente, recuperando (o quasi) lo scottante documento utilizzato a scopo di ricatto.

Fauntleroy (1858) è invece la storia di un truffatore, raccontata dal punto di vista intimo di un suo amico.

La scrittura dei racconti è molto più contratta, com'è ovvio, rispetto alle dettagliatissime vicende dei due romanzi che ho letto tra fine inverno e inizio primavera, ma ho trovato comunque molto piacevole la lettura, pur non ritrovandoci le caratteristiche del Collins romanziere che mi avevano conquistata.

Giudizio: ⭐⭐⭐1/2

martedì 2 luglio 2024

Delitti a Fleat House delude per la detective protagonista

 Delitti a Fleat House è un romanzo poliziesco della scrittrice Lucinda Edmonds, nota come Lucinda Riley (più famosa per la saga rosa delle Sette Sorelle). Sebbene fosse stato scritto nel 2006, è stato pubblicato postumo nel 2022, a un anno dalla scomparsa dell'autrice a causa di un cancro dell'esofago.  Il figlio, Harry Whittaker, ha curato la revisione dell'opera, senza operare una riscrittura, come scrive nell'introduzione. In Italia è uscito per Giunti, 496 pagine, ma io l'ho ascoltato su Audible, poco più di quindici ore in compagnia di Daniela Cavallini, la cui voce è piuttosto abile a cambiare torno a seconda del personaggio.


Siamo nel Norfolk, dove si è rifugiata la detective di Scotland Yard, Jazmine "Jazz" Hunter, dopo una burrascosa chiusura del suo matrimonio. A non molta distanza dal suo cottage, nella St. Stephen's School, precisamente nel dormitorio degli studenti, Fleat House, viene ritrovato morto un ragazzo, Charlie Cavendish, forse per un attacco epilettico.

Che ve lo dico a fare, se questo è un romanzo poliziesco, probabilmente le cause della morte non sono naturali e la detective si ritrova a indagare su strane connessioni che ha la vittima. E non è l'unica vittima. In effetti, i protagonisti di questa storia sono tutti legati insieme, in un cerchio molto ampio di coincidenze e relazioni (forse sono pure un po' troppi questi legami, torna tutto un po' troppo bene, in modo quasi prevedibile).

Riguardo al giallo, non posso lamentarmi delle indagini in sé, che sono abbastanza al centro della storia. Le soluzioni ai vari misteri, invece, in parte sono telefonate. Se volessimo fare le pulci a tutto, avrei da ridire sull'utilizzo della ricerca del DNA prima di aver fatto altre indagini più semplici e veloci, ma questo è l'unico giallo della scrittrice, quindi non è il caso di essere così pignoli. Non mi oppongo nemmeno al tipo di conduzione dell'indagine da parte della detective: non sarà la prima e non sarà nemmeno l'ultima che si serve più dell'intuizione che della deduzione.

Dal punto di vista dell'atmosfera, questa mi è sembrata ben resa, piacevole. La scrittura era fluida e il romanzo ha offerto un piacevole intrattenimento. Durante l'ascolto avevo voglia di andare avanti con la storia.

Sui personaggi, invece, già comincio a storcere il naso. Trovo che aderiscano un po' troppo a un ruolo, più che avere dei caratteri sfaccettati, però è un giallo, quindi è anche un po' superfluo (non mi sono mai lamentata dei personaggi della Christie, che dovevano puramente assolvere a un compito nell'ordito della trama): ci sono la moglie stronza e madre iperprotettiva, l'avvocato stronzo (sono tutti ricchi e tendono ad averla come caratteristica di base), il preside incompetente, il ragazzino bullo, quello bullizzato e così via.

Passando ai collaboratori di Hunter, invece, ci troviamo davanti a una serie di manipolatori senza appello (e questa è la seconda cosa che mi è piaciuta poco), anche se per la detective sembra tutto normale: la psicologa dovrebbe essere sua amica, ma complotta alle sue spalle con l'ex marito, anziché farsi gli affari suoi, il collega non tiene un'informazione riservata per sé nemmeno per sbaglio, il capo la mette alla prova e, il peggiore di tutti, l'ex marito è un approfittatore meschino e stronzo (per non sbagliarsi).

Tuttavia, la prima cosa che mi è piaciuta di meno è che trovo proprio antifemminista e superficiale che non ci possa essere una detective donna che indaga in un poliziesco, senza che si debbano scrivere capitoli su capitoli sulla loro vita privata, rendendola un secondo filone di trama. Anche se questo aspetto non toglie molto all'indagine, lo trovo comunque un fattore detestabile. Abituata a un Montalbano che non considera Livia per giorni, perché deve stare dietro al caso, qua, al contrario, la detective Hunter sparisce in mezzo all'indagine per stare dietro ai genitori (ok, comprensibile, la perdoniamo) e poi è al centro di un triangolo amoroso che prende troppo spazio. Ma poi, veramente tutte le detective donna devono stare al vertice di un triangolo (ora, su due piedi, posso citare le controparti italiane Silvana Sarca e Clara Simon)?

Ancora, quello che le fanno fare, nella relazione con l'ex marito, non mi va proprio giù: ennesimo ritratto di una donna emotivamente fragile, incapace di leggere bene le situazioni e di reagire in modo netto e assertivo (cos'è, le trovate caratteristiche maschili?). No, non mi piace proprio. Eppure Jazz Hunter sembra un personaggio tosto, ma si contraddice, sempre sul lato affettivo. Questi ritratti femminili a me hanno stufato.

In conclusione, bilanciando

  • quello che mi è piaciuto: storia gradevole, buona atmosfera, coinvolgente, intrattenimento leggero;
  • quello che non mi è piaciuto: un po' prevedibile, personaggi piatti, troppa vita sentimentale della detective, detective emotivamente ballerina:
Giudizio: ⭐⭐⭐

lunedì 1 luglio 2024

Racconti di fate e gnomi: Follettiana di ABEditore

 Nella collana Ombre e creature di ABEditore figura Follettiana, raccolta di quattordici racconti incentrata sul cosiddetto piccolo popolo, ossia creature quali folletti, fate, gnomi e tutti gli esseri che in lingua anglofona sono anche conosciuti come fairies.


Per fare un po' di chiarezza sulle molte creature, il curatore della raccolta, Pietro Guarriello, ha inserito un'introduzione iniziale e una nota prima di ogni racconto, che descrive lo spiritello in questione e - molto brevemente - la vita e le opere dell'autore del brano.

Il brownie di Valferne di Elizabeth W. Grierson è una storia (oserei dire) tenera e dalla trama molto semplice. I brownie sono, in effetti, spiriti gentili, che spesso creano vantaggiose collaborazioni con gli esseri umani. L'ho apprezzato particolarmente.

Lo Skriker di James Bowker, invece, introduce una creatura foriera di sventura, appunto lo Skriker. Questa storia ha tono e finale opposti alla precedente. Per la sua cupezza non è rientrato tra i miei preferiti.

La leggenda di Knockgrafton di Thomas Crofton Croker è il classico racconto moralista, che insegna che si raccoglie quel che si semina e che sono le nostre intenzioni a determinare successo o sciagura. 

Le uova dei folletti di Joseph Berg Esenwein e Marietta Stockard, che vede un uomo alle prese con una covata di uova misteriose, ha una certa dolcezza, che si mischia, tuttavia, a un finale piuttosto inquietante.

Il bottino del folletto di Algernon Blackwood ha per protagonisti un leprecauno e l'ospite di una stanza in cui avvengono curiose sparizioni. Forse è il più leggero e divertente dei racconti di questa raccolta.

Il brownie della Valle Oscura di James Hogg vede il brownie, di cui abbiamo già detto che è una creatura fondamentalmente benigna, in una veste diversa. In questo caso, infatti, dà un gran filo da torcere alla sua padrona, che è, in effetti, la cattiva della situazione.

La faccia del goblin di Mary Louisa Molesworth è un racconto brevissimo, incentrato sulle visioni di una bambina.

Il santo e il folletto di pietra di "Saki" Munro è una breve conversazione fra figure di pietra in una cattedrale o, come ci dice la nota introduttiva, una parabola.

Il pony delle streghe di Andrew Lang, che ha per protagonista un goblin del tipo Nuggle, è un racconto di appena tre pagine, ma estremamente inquietante. Dobbiamo ricordarci, durante la lettura, che si tratta di una fiaba del 1900 che ha uno scopo moralista per un pubblico chiaramente infantile, alla Uomo Nero, per intenderci.

Il demone di Adachigahara di Yei Theodora Ozaki è il primo dei due racconti orientali di questa raccolta. In questo caso, abbiamo a che fare con uno spirito malvagio, un Yokai, che assume le sembianze di un'innocua nonnina, ma ha intenzioni tutt'altro che benevole.

Gli spiritelli di cui parlano, invece, Im Bang e Yi Ryuk sono Doggabi coreani. Questo racconto li vede protagonisti in una delle più classiche situazioni di storia horror: la casa infestata.

La città dei goblin di W.H.D. Rouse è un altro racconto brevissimo, poco più di tre pagine. Stavolta a esserne protagonisti sono spiriti cattivi femminili, le Rekshasi, che - trovo - hanno molte affinità con le Sirene omeriche.

Il folletto della rosa del genovese Egisto Roggero ha un tono molto leggero e si incentra su un malinteso.

'O Munaciello di Matilde Serao, infine, è la storia di una leggenda conosciutissima di Napoli di uno spiritello favorevole o avverso al destino di chi lo incontra, a seconda del modo con cui ci si rivolge a lui.

Giudizio: questa raccolta alterna, come è normale che sia, racconti più riusciti e altri che mi hanno detto poco o nulla, ma complessivamente si è trattato di una gradevole lettura e mi ha fatto piacere leggerne alcuni non europei. ⭐⭐⭐ 1/2