domenica 23 giugno 2024

Oriana alla guerra: Insciallah

 Lettera a un bambino mai nato fu un testo che mi colpì molto fin da adolescente, per l'argomento trattato, il modo con cui è stato trattato e la scrittura fluida e poetica di Oriana Fallaci. Anni dopo lessi anche Un uomo, la biografia (molto più cruda dell'altro testo) dell'uomo che la giornalista amò e supportò nelle sue battaglie e che confermò la scrittura dell'autrice fiorentina come particolarmente gradita ai miei occhi; infine, quest'anno, ho recuperato, grazie a un gruppo di lettura, Insciallah, che non ha potuto far altro che consolidare l'amore che ho per questa scrittrice.


Anche Insciallah è un'opera emotivamente ostica da leggere, sebbene, in realtà, tutti e tre i romanzi che ho letto non lo sono a titolo gratuito: Oriana Fallaci è schietta e diretta nel raccontare cosa ha visto come inviata di guerra (e in generale nella vita). La sua penna non enfatizza mai, non celebra, non spettacolarizza, ma, al contempo, non nasconde nulla: è oggettiva ed è, dunque, la vita a essere cruda e non la sua scrittura. Un esempio sono la presenza delle bestemmie, che credo conferiscano credibilità al testo e che, in effetti, non sono mai a sproposito, ma messe in bocca ai personaggi che stanno sperimentando un'esperienza straordinaria e provante, oppure ai toscani, che posso testimoniare le utilizzano come intercalare, senza darvi troppo peso. Inoltre sono maggiormente presenti nell'esordio e scompaiono quasi del tutto successivamente.

L'apertura del romanzo è molto d'impatto, in questo senso, quasi a voler avvisare subito il lettore sul tono dell'opera e costringerlo immediatamente a decidere se avrà abbastanza fegato per proseguire nelle pagine che restano (non sono poche - totale 795 -, quindi è bene chiarirsi subito se vale la pena proseguire). Siamo a Beirut, città che fu teatro di una sanguinosissima guerra civile fra più gruppi religiosi, tra il 1975 e il 1990. In tempi e con modalità diverse, inglesi, francesi, italiani e americani invieranno dei contingenti per cercare di intervenire e garantire la pace (che utopia!, oltre all'arroganza di voler imporre gli ideali occidentali in un altro mondo, effettivamente ricambiata dall'odio e dalle ritorsioni delle popolazioni locali, divise su tutto, tranne che sul fatto di non volere stranieri a impicciarsi degli affari loro). Il contesto in cui si ambienta la storia è dunque vero, ma la storia che inventa Oriana Fallaci è interamente di finzione e ha per protagonisti i militari italiani in missione di pace nella capitale libanese: il romanzo si apre proprio con la strage del 23 ottobre 1983, che colpì le basi militari francese e americana a Beirut e che catapulta il lettore fra brandelli di corpi e bestemmie di mutilati e soccorritori.

Incontriamo il protagonista del romanzo, il matematico e militare Angelo, proprio in questo frangente, intento a scoprire l'orrore della strage e a interrogarsi se esista e quale sia la Formula della Vita, un concetto matematico che possa spiegarla. Angelo è in crisi tra vocazione professionale e legami affettivi, da quando la bellissima libanese Ninette gli fa la corte. La loro storia sarà centrale nella trama e le conseguenze del modo in cui evolve avrà ripercussioni sul destino di molti altri.

Piano piano, oltre ad Angelo scopriamo una lunga serie di altri soldati italiani, di ogni grado e reparto, ognuno a suo modo fondamentale per l'intrecciarsi delle vicende che si scatenano la domenica di ottobre degli attentati kamikaze e che culminano tre mesi dopo. Ogni personaggio ha una sua storia, un'identità, dei legami, qualcosa che lo muove e trovo che l'autrice sia stata magistrale nel crearne così tanti e, soprattutto, nell'annodare ciascuna di queste linee di narrazione (anche se sono talmente tanti che ogni tanto mi dimenticavo di qualcuno, finché non mi imbattevo di nuovo in lui). La riuscita dei personaggi varia e ad alcuni mi sono affezionata, durante la lettura, più che ad altri. La maggior parte di loro ha un arco narrativo carico di tormento: fuggono dai loro passati e cercano, a Beirut o malgrado Beirut, forme di riscatto o di consolazione.

Nei tre mesi in cui si ambientano le vicende, inoltre, conosciamo anche altri personaggi di contorno: i bambini che fanno amicizia con i militari, le suore del convento occupato per farne la base Rubino, Bilal lo spazzino, Passepartou l'adolescente cinico e sadico, e ancora membri di ciascuna delle parti in causa nella guerra. Fallaci ci spiega l'origine di un conflitto, in cui gli interessi di ciascuno sono complessi e, talvolta, mutevoli. Una delle più straordinarie imprese in cui riesce la scrittrice è raccontare ogni diverso punto di vista: soldati di lunga esperienza che amano la guerra, ma che entrano in conflitto con la propria vocazione a causa della guerra e soldati di lunga esperienza che odiano la guerra, eppure vi trovano una sua necessità; uomini che partono con una forte motivazione e la perdono; uomini che lasciano casa pieni di dubbi o di paure e che trovano il loro posto nel mondo; vili che diventano coraggiosi e viceversa; governativi, mussulmani, cristiani, figli di Dio. C'è spazio per la crescita, ma anche per la stasi e per cambiare idea più volte. C'è spazio per descrivere ogni forma di sentimento: l'ardore, la paura, il dubbio, l'amore, l'amicizia, la compassione, la sete di vendetta. Ognuna di queste emozioni e dei pensieri, anche totalmente contraddittori sono riportati con la stessa importanza: è un ecosistema, un piccolo mondo, popolato di personaggi quasi reali, comunque probabili. Oriana Fallaci si annienta quasi del tutto (quasi) e lascia spazio a molte altre voci, in ciascuna delle quali e in nessuna c'è un pezzettino di lei. La biografia della Fallaci ha chiaramente influenzato le sue posizioni sui conflitti e sui suoi protagonisti e quest'opera non sarebbe tale se lei non fosse stata la compagna di Alekos Panagulis. Io, personalmente, rivedo un po' di Oriana nel personaggio di Ninette.

La scrittura ha un ritmo che non è mai serrato, ma conduce inesorabile verso l'appuntamento col destino di ciascun personaggio. Nessuno è dimenticato, perché la struttura è curata al punto da far incastrare tutti i pezzi del puzzle nel giusto posto.

I dialoghi sono frequenti e ogni personaggio parla nella sua lingua o nel suo dialetto, subito seguito da una traduzione integrale o parziale del discorso. Anche se è pur sempre una ridondanza, c'è da ricordare che nel 1990 non tutti avevano ricevuto un'istruzione che permettesse di comprendere il francese o l'inglese, tantomeno l'arabo, il bergamasco, il napoletano o qualunque altra parlata si incontra nel testo. Ulteriori iterazioni sono quelle di alcune espressioni o, addirittura, intere parti di frasi o frasi: queste ripetizioni (nei dialoghi o per enfatizzare la particolare espressione usata) possono essere considerate fastidiose, ma, per conto mio, sono necessarie le prime e apprezzabili le seconde.

Si leggono crudeltà spaventose in questo libro (Un uomo non era da meno ed è citato a un certo punto), ma è anche un romanzo sofisticato per molti versi, tra cui l'aspetto metaletterario. Oriana s'intravede in trasparenza sia come personaggio, sia come autrice, che si fonde a sua volta con un altro personaggio, che scrive lettere a una moglie che non ha e anche una sua piccola versione dell'Iliade, con protagonisti gli uomini che lo circondano.

In conclusione, questo libro è molte cose: è ricco dal punto di vista degli avvenimenti, degli intrecci, delle emozioni che suscita; è intricato dal punto di vista dalla struttura. Consente un approfondimento su di un conflitto di cui non sapevo nulla, ma soprattutto sulla natura umana, che una donna esperta e stanca degli uomini come Oriana Fallaci aveva ben conosciuto. L'autrice si lancia contro e a favore dell'umanità che descrive, traendo spunto dalla realtà, dall'ipocrisia e dalle generosità che ha incontrato, anche perché, come sostiene l'autrice, entrambi i punti di vista, entrambe le possibilità sono plausibili e coesistono.

Giudizio: ⭐⭐⭐⭐1/2

lunedì 17 giugno 2024

Un altro Stevenson: La freccia nera

 Ho amato molto di Robert Luis Stevenson L'isola del tesoro e mi è piaciuto tantissimo Lo strano caso del dottor Jekyll e Mr. Hyde. Quando ho visto un gruppo di lettura che lo aveva in programma nel mese di maggio, ho, dunque, colto al volo l'opportunità di leggere anche La freccia nera (1883), molto famoso per i suoi adattamenti televisivi (quello con Arnoldo Foà e Loretta Goggi del 1968 e quella - meno acclamata - del 2006 con Riccardo Scamarcio, Martina Stella e Ennio Fantastichini). 


Come spiega lo stesso autore nella nota introduttiva all'edizione completa del 1888, questo romanzo (che io ho letto nell'edizione Mondadori, 300 pag + introduzione e postfazione) è stato pubblicato a puntate (ben 17) nella rivista Young Folks.

Ecco, io trovo che nella trama e nella struttura questa caratteristica si ritrovi completamente e che abbia determinato la sua riuscita (e quindi il mio gradimento).

Le vicende si ambientano durante la Guerra delle due rose, anche se solo un personaggio realmente esistito appare nel romanzo, ossia Richard Crookback di Gloucester, che nel 1483 diviene Riccardo III e che è sempre stato ritenuto il protagonista più interessante ed efferato di quella parte della storia inglese.

Divisa in cinque parti, la storia ci introduce, innanzitutto, i rapporti che legano il giovane Richard (Dick, anche per non confonderlo con il duca di Gloucester) Shelton con il suo protettore, Sir Daniel Brackley, voltafaccia che passa alternativamente dal parteggiare per i Lancaster agli York. Sir Daniel cresce l'orfano Dick, ma scopriamo subito che ha a che fare con la morte di suo padre.

A denunciare il complotto che portò alla morte di Herry Shelton è John Duckworth, detto Riparatorti (o, secondo le edizioni, Vendicatorti o Aggiusta tutto), l'uomo che, privato dei suoi beni a causa di Sir Daniel, fonda nel cuore della foresta di Tunstall la banda della Freccia Nera, che vuole vendicarsi dei misfatti compiuti da Brackley e dai suoi complici.

Dick si imbatte in questa banda nella sua prima traversata della foresta, che compie insieme a un altro personaggio centrale della vicenda. Altra protagonista (fino a un certo punto, perché poi il buon Stevenson la perde un po' di vista) della storia è infatti Joan Sedley, altra vittima dei piani di Sir Daniel.

Questa prima parte del romanzo è molto interessante per atmosfera e per i risvolti che promette la banda della Freccia Nera. Solo che, terminato il secondo libro, niente di tutto questo viene ripreso e portato a termine.

La banda della Freccia Nera, che inizialmente sembra la combriccola di Sherwood, d'improvviso diventa un gruppo di sbandati, pronti a seguire come a tradire il proprio leader, mossi solo da istinti egoisti e la promessa di denaro o di bevute.

In primis il bandito che la mia edizione chiama Senzalegge, una sorta di Frate Tuck, in quanto ex frate, oltre che ex marinaio (insomma, molto esperto in molte diverse cose della vita), assume caratteristiche diverse a distanza anche di poche pagine: da abile capitano che conduce in salvo una nave, a miserabile ubriaco che si macchia di efferatezze, almeno stando alle impressioni del nostro protagonista Dick, che pare avere pesi e misure diverse per quanto riguarda uccidere altri uomini (attività quanto mai comune durante le Guerre delle Rose). Senzalegge in alcuni momenti è il mio personaggio preferito di questo romanzo, ma è regolarmente bistrattato dal suo stesso autore, che gli concede alternativamente momenti alti e bassi.

John Duckworth, che dovrebbe essere uno dei personaggi cruciali per come è impostata inizialmente la storia, scompare, salvo essere nominato, ma non presente, se non per un brevissimo colloquio (nonché l'unico tra loro nel romanzo) con Dick a quattro pagine dalla fine del romanzo. Il rapporto tra Riparatorti e Dick è inesistente, mentre mi aspettavo che ci fosse qualche legame alla mentore-allievo. Inoltre Duckworth dovrebbe essere il capo della Banda della Freccia Nera, ma il romanzo si allontana totalmente da seguire la storia dei banditi e dunque il loro generale perde il suo posto in questa storia.

Lo stesso Sir Daniel, che come cattivo è affascinante e sempre un passo avanti ai suoi nemici (o amici, tanto è lo stesso), è un po' trascurato in alcuni momenti, anche se mai come Riparatorti.

Quest'ultima vira, infatti, verso la guerra e lascia Dick a scoprire da quale parte in causa pende la sua lealtà; non solo. Uno degli aspetti che salvano il romanzo dal pasticcio di sottotrame che non si ricongiungono è lo sviluppo del protagonista. Se è vero che Stevenson lo conduce per vie che non mi aspettavo, dimenticandosi del titolo del romanzo e dell'idea di partenza, è pur vero che queste strade costituiscono un percorso di crescita per il ragazzo. Dick si trova a commettere leggerezze, trascinato dall'esuberanza giovanile e dalla tendenza ad agire senza valutare le conseguenze; tuttavia matura, grazie alla guerra e alle conseguenze di quegli stessi suoi errori, che gli ripresentano il conto, dandogli l'opportunità di rimediare in parte, essendosene pentito e avendo imparato la lezione. Unico nel contesto dello scontro fra case regnanti, Dick è quasi super partes, non riscontrandosi in nessuno dei partiti e non cercando neppure di ingraziarseli, pur ritrovandosi invischiato nelle battaglie e traendone persino dei benefici.

In conclusione, ritengo che la storia promettesse molto bene e che almeno la prima parte abbia un'ambientazione e un'atmosfera piacevoli e interessanti; trovo che sia stato fatto un buon lavoro sul personaggio di Dick, ma non salvo il modo sconclusionato con cui sono state portate avanti le vicende, perdendo di vista personaggi, senso dell'opera e inserendo invece altri elementi a tratti inutili (come l'amica di Joan). Principalmente sono rimasta male dallo scollegamento tra l'inizio e la parte centrale e finale; tutte le domande che ci facciamo all'inizio non trovano risposta e quanto annunciato nel prologo è perso di vista, probabilmente a causa della narrazione a puntate (forse non c'era un piano originale studiato nei dettagli fin da subito?). Non posso fare a meno di confrontare questa trama con quella di La donna in bianco di Wilkie Collins, che pur essendo pubblicata a puntate, al termine trovò un posto per ogni pezzo del puzzle.

L'avventura rimane al centro di ogni libro che compone l'opera, anche se i singoli episodi a tratti risultano scollegati. La scrittura è comunque scorrevole, ma non trovo che sia la penna migliore che abbia utilizzato il caro Stevenson.

Giudizio: una sufficienza non proprio piena ⭐⭐ 1/2

venerdì 7 giugno 2024

Prima esperienza con le detective stories orientali: il detective Kindaichi

 Edito nel 1946, Il detective Kindaichi, alias I delitti di Honjin, vinse il Mystery Writers of Japan Award nel 1948. A quanto mi risulta, questo romanzo, tradotto in Italia da Sellerio (203 pagine più glossario) è il primo della serie che ha per protagonista Kosuke Kindaichi, che qui appare come un giovane, circa venticinquenne, dall'aria trasandata, ma abile osservatore.


L'autore, Kosuke Kindaichi, è noto per la sua passione per i gialli occidentali (di cui cita molti autori anche nel romanzo, in particolare Dickson Carr, a cui è stato paragonato, arrivando a definirlo la sua variante giapponese), che ha tentato di emulare anche nella propria scrittura. Ci è riuscito?

Naturalmente posso esprimermi solo per il volume che ho letto, la cui ambientazione, tuttavia è molto nipponica, seppure lo stile di scrittura e la modalità con cui Kindaichi segue le indagini (anche se un po' carenti) rimandino al giallo classico, così come la trama.

Si tratta, infatti, di un delitto della stanza chiusa, grande must del genere giallo, particolarmente nel periodo in cui la storia è scritta. Nello stesso prologo si fa riferimento a Il mistero della camera gialla di Gaston Leroux (1907), Arsen Lupin. I denti della tigre di Maurice Leblanc (1921), La canarina assassinata (1927) e La tragedia in casa Coe (1933) di S. S. Van Dine e, naturalmente, La casa stregata di Dickson Carr (1934). Io aggiungo L'assassinio di Roger Ackroyd (1926) e Il Natale di Poirot (1938) di Agatha Christie.

La storia inizia con un narratore che rievoca quanto gli è stato raccontato da il dottor F. Il caso del villaggio di Yamanodani è riportato come se fosse un racconto di terza mano. Introdotta la ricca famiglia Ichiyanagi e gli antefatti del matrimonio tra il primogenito Kenzo e la maestra di scuola Katsuko, già nel capitolo 4 giungiamo alla tragedia. Gli eventi concernenti l'omicidio sono descritti dal punto di vista dell'affezionato zio di Katsuko, Ginzo: è lui che a chiamare a investigare il suo abile conoscente, Kindaichi, che comparirà quattro capitoli più tardi. I due coniugi sono, infatti, rinvenuti nella dépendance della casa principale, dove stavano trascorrendo la prima notte di nozze. Il luogo, descritto minuziosamente, anche con l'aiuto di una mappa, risulta tuttavia difficile da inquadrare per l'immaginazione di un lettore occidentale, tra soprafinestre, ponticelli, Shoji e, soprattutto, lo  strumento musicale protagonista del mistero, il koto.

Altro protagonista della storia è l'uomo con tre dita, che si aggira intorno alla casa fin dall'inizio. Il lettore di gialli un po' avveduto indovinerà presto come si inserisce nella vicenda.

Le descrizioni paesaggistiche e degli edifici sono molte e un pochettino prolisse, a mio parere: perlomeno hanno appesantito la mia lettura, che non è risultata così scorrevole. Le indagini sono presenti, ma al lettore non sono svelati tutti gli elementi che scopre Kindaichi (come vorrebbe invece l'ottava regola del decalogo di Knox). Il detective un po' prosegue per deduzioni e un po' per intuito. La nota più dolente è probabilmente il finale, la risoluzione del mistero, per due ragioni: la prima è proprio chi è stato; la seconda è la dinamica del delitto, molto alla Detective Konan, ossia impossibile da indovinare (un po' come tutti i sistemi con cui sono risolti i misteri delle camere chiuse, del resto).

Giudizio: un po' noioso e un po' deludente ⭐⭐

Fare la conoscenza del Commissario Soneri con L'affittacamere

 La serie del commissario Soneri è famosa per l'adattamento televisivo con Luca Barbareschi e Natasha Stefanenko, Nebbie e delitti e comprende sedici libri, i primi quattordici editi da Frassinelli, mentre gli ultimi da Mondadori. Proprio Mondadori ha curato la ripubblicazione del volume L'affittacamere, che lo scorso luglio l'autore ha presentato al festival Cesenatico Noir, evento durante il quale ne ho acquistato e fatta autografare una copia. Questo maggio sono finalmente riuscita a leggerlo, immergendomi nella sua malinconia.


Questo romanzo è il quinto con protagonista questo commissario solitario e un po' musone. In particolare, questa indagine consente di approfondire una delle ferite che rendono Soneri cupo, distante dai collaboratori e, persino, dalla compagna, Angela.

Il giallo si apre, infatti, con una vecchia conoscenza dell'uomo, la signora Fernanda, che viene in commissariato a cercarlo, perché la sua vicina di casa, Ghitta, non risponde, eppure non dovrebbe essersi assentata. In effetti, Soneri ne scoprirà presto il cadavere e inizierà a indagare, con il contributo, mantenuto un po' a distanza, dell'ispettore Juvara. Il commissario, in realtà, si farà aiutare un po' anche da Angela, che lo guiderà alla riscoperta del vecchio centro di Parma, ormai abbandonato dalla borghesia bene e rimasto popolato solo da stranieri e derelitti. Tuttavia, l'uomo terrà anche la compagnia a una certa distanza emotiva, preferendo addentrarsi nella giunga del centro storico e in tristi ricordi da solo e per un motivo preciso. Il luogo del delitto, infatti, è la casa e la pensione di Ghitta, che molti anni prima aveva affittato una camera anche alla moglie, nientemeno, dello stesso Soneri, morta da alcuni anni.

L'indagine, condotta tra le nebbie e le notti delle stradine meste, ma non del tutto disabitate, della città, guida il commissario a incontrare figure che provengono dal suo passato e da quello di Ghitta: lo porteranno dritto dritto a scontrarsi coi suoi fantasmi e con quanto è rimasto di insoluto nella fine del suo matrimonio.

Si tratta di una storia molto malinconica; la scrittura è molto attenta a scandagliare le sensazioni del commissario e degli indagati, così come di tutti coloro che ruotano attorno al caso. L'atmosfera stessa è molto intima.

Riguardo allo stile di poliziesco, il commissario Soneri segue le orme di un Montalbano o un Adamsberg: vaga seguendo il suo filo dei pensieri e delle sensazioni. Gli interrogatori da cui scaturiscono le riflessioni, anche solide, del poliziotto sono guidati da intuizioni, che lo mantengono sempre in vantaggio rispetto al lettore. 

La scrittura alterna dunque dialoghi, piuttosto scorrevoli e credibili, alla descrizione dei paesaggi cittadini e delle peregrinazioni del commissario. Questa parte, per me, è stata molto apprezzabile. La storia, invece, mi ha interessata fino a un certo punto, anche se l'alone di amarezza e rimpianto che caratterizza la vicenda l'ha anche resa interessante, particolare e gradevole per me.

In conclusione, tuttavia, il gradimento è non eccezionale.

Giudizio: ⭐⭐⭐

domenica 2 giugno 2024

Episodi di vita della...Gente di Dublino

 James Joyce, studiato come tutti a scuola, mi ha sempre incusso un certo timore reverenziale, principalmente per lo stile noto come "flusso di coscienza", utilizzato in alcune sue opere, tra cui il romanzo Ulisse. Mi sono dunque approcciata solo quest'anno a una delle sue opere più note, regalatami anni fa, ossia Gente di Dublino.


I Dubliners (titolo inglese) sono una raccolta di racconti ambientati nella Dublino di Joyce, pubblicata nel 1914, otto anni prima dell'uscita di Ulisse, che è quasi un episodio più lungo e con meno punteggiatura di questa stessa raccolta.

Il mondo raccontato da Joyce, infatti, e che fa da sfondo ai suoi personaggi nei racconti e nei romanzi è questa città industriale e in crescita, più un ricordo per l'autore, che non una realtà, essendosene allontanato poco più che ventenne nel 1904. I racconti sui Dublinesi sono composti tra l'anno della partenza e il 1907.

Si tratta di quindici racconti, piuttosto brevi, eccetto l'ultimo, di circa una cinquantina di pagine nella mia edizione Mondadori del 2014. Si incentrano su episodi o situazioni di vita di persone qualunque, spesso di bassa estrazione sociale, ma non esclusivamente.

Il primo racconto della raccolta, Le sorelle, forse quello che mi è piaciuto meno, ha per protagonista un ragazzo, che deve affrontare una brutta notizia riguardante un suo conoscente e mentore; sempre per protagonisti dei ragazzi anche i racconti Un incontro, fatto proprio da due giovani studenti che marinano la scuola e che si rivela anche un po' ambiguo e inquietante e Arabia. 

In questo caso il protagonista attende con ansia tutta la giornata di potersi recare in un bazar, per un motivo romantico. Questo è uno dei racconti che mi è più piaciuto, per le capacità dell'autore di raccontare in modo tanto credibile le emozioni del giovane, sia nell'attesa di quel pellegrinaggio, sia nel finale. Questa stessa caratteristica si ritrova anche in Eveline, dove protagonista è una diciannovenne che si dibatte tra aspirazioni e sensi di colpa.

Dopo la corsa è il secondo racconto che non mi è piaciuto probabilmente per il suo essere amaro, riguardando un gruppo di amici che passano una serata insieme a fare baldoria e a giocare a poker.

Nemmeno I due galanti, per il tema molto maschilista, ha fatto breccia nel mio cuore, ma si colloca meno in basso per l'ambientazione e l'accurata descrizione dello stato d'animo di uno dei due personaggi, che attende l'amico per sapere com'è andata la serata con una donna. Un po' vano, come questi ultimi due, sarà anche il racconto Il giorno dell'edera, anche se è il dodicesimo in ordine, in cui discutono fra loro i membri di un team elettorale.

Pensione di famiglia è un racconto più leggero, dall'aria di commedia, con qualche richiamo alla Locandiera di Goldoni, per via del personaggio della scaltra proprietaria della pensione, che ha tutte le intenzioni di farsi valere in una faccenda che riguarda la figlia. Questo racconto non è esente da una nota amara, come gli altri della raccolta, ma non quanto Una piccola nube, dove un confronto fra vecchi amici fa riflettere molto sulla condizione della propria vita.

Tristissimo e cupo, invece, è il racconto chiamato Rivalsa, in cui Joyce illustra molto bene le conseguenze che ha su un uomo l'alcolismo, sul lavoro e a casa. Non ha un lieto fine neppure Un caso pietoso, che narra di un uomo e una donna che si conoscono a un concerto e che, condividendo la passione per la musica, intrattengono per un certo tempo un rapporto di amicizia. Sulla tristezza della condizione umana si incentra anche Polvere (che in realtà è Clay in inglese, argilla, più attinente a quello che accade nel racconto), incentrato su una visita che compie una povera lavandaia di nome Maria al bambino che accudiva un tempo, ormai adulto e con una sua famiglia.

Ancora un'ingiustizia è protagonista del racconto Una madre, dove una donna si trova a scegliere tra far subire un torto alla figlia e comprometterne la carriera futura in un mondo scorretto e maschilista; anche questo, come molti di quanti già citati, lascia l'amaro in bocca.

Meno amaro e tragico è invece La grazia, dove un gruppo di amici si unisce per aiutare un loro conoscente, anch'esso afflitto da alcolismo, e la sua sfortunata moglie. Anche I morti ha un inizio meno triste degli altri racconti, poiché ambientato a una festa, eppure i dispiaceri e i problemi delle vite dei personaggi trapelano lo stesso nelle pagine, quasi che non si potessero lasciare fuori dalla porta di casa neanche se si sta festeggiando un bianco Natale.

Questa Dublino di povera gente, violenti, ubriaconi, sbandati è estremamente affascinante e triste. Mi è piaciuto moltissimo il modo in cui Joyce ha saputo raccontare queste miserie del portafoglio o dell'animo, scolpendo personaggi molto vividi. Ho avuto certo torto a pensare che sarebbe stata una lettura pesante, perché si è rivelata interessante, quasi emozionante, e non mi ha richiesto più di un pomeriggio. La scrittura non è ricercata, ma semplice, si adatta al tema dei racconti.

Giudizio: ⭐⭐⭐⭐

lunedì 27 maggio 2024

I racconti di Bianca Pitzorno sono Sortilegi

 Bianca Pitzorno scrisse nel 1990 la storia di accompagnamento alle tavole di Piero Ventura, che raffiguravano una giovane, rimasta a vivere sola nel bosco dopo la morte della sua famiglia, a causa della peste seicentesca, e poi accusata di essere una strega.

Pochi anni fa, la storia illustrata uscita nel 1991 col titolo di Ritratto di una strega e nel 2000 come La strega di Vallebuja, è stata ripresa dall'autrice sarda per Bompiani e approfondita nella parte di racconto che fa riferimento alla vita della protagonista, Caterina, negli anni vissuti in solitudine.

Questa genesi del racconto La strega è nelle note al termine del primo racconto di questa piccolissima antologia: un totale di tre racconti, ciascuno corredato della sua nota esplicativa, e 141 pagine.


La storia del primo e più sostanzioso racconto (un'ottantina di pagine) è quella immaginata da Piero Ventura e raccontata in linguaggio seicentesco da Bianca Pitzorno. L'aggiunta all'originale, scritta con un altro linguaggio, addolcisce e aggiunge una parte magica al nocciolo crudo del racconto di un'ingiustizia perpetrata ai danni di una ragazza innocente. La storia di Caterina si intreccia a quella degli abitanti del paese di Albieri e non solo. Compaiono, infatti, anche accenni a personaggi quali Galileo Galilei e sua figlia, Suor Maria Celeste (ed è subito crossover con Oscura e Celeste, letto un paio di mesi fa).

Il racconto mi è piaciuto, ma mi ha anche provocato emozioni negative durante la lettura, dispiacere e rabbia, anche se la storia non è nuova.

In questo senso, ho forse preferito gli altri due racconti, che seppur molto più brevi, condensano alla perfezione il senso di magia che permea ogni pagina di questa raccolta, con un finale meno triste.

Maledizione (poco meno di 20 pagine) è la storia del risentimento di una donna, che ha inutilmente aspettato qualcosa tanto a lungo, da dispiacersi e vendicarsi quando ciò che desiderava tocca ad altri.

Profumo, ancor più breve (otto pagine), racconta della leggenda di biscotti realmente esistenti in un paese in Sardegna, Mughèdule, capaci di evocare sensazioni ammaliatrici.

Ho già avuto modo di apprezzare la scrittura scorrevole ed evocativa dell'autrice e queste poche pagine non fanno che riconfermarmi che la lettura di qualsiasi cosa di Bianca Pitzorno è un'esperienza piacevole e felice di suggestioni.

Giudizio: ⭐⭐⭐⭐

lunedì 13 maggio 2024

Ho ascoltato gli audiolibri dei primi tre capitoli della saga di Vani Sarca di Alice Basso

 Vi è mai capitato di trovare spiacevole o addirittura brutto un libro o un film o una serie, ma non riuscire a staccarvene perché vi ricorda qualcosa, ma non capite cosa?

A me è successo con la saga della ghostwriter Vani (diminutivo di Silvana) Sarca, di Alice Basso. Ci ho messo un audiolibro e mezzo a capire cosa mi ricordava e a classificare finalmente questa serie in un genere definito, ma non letterario. Perché una cosa è certa: questa serie non appartiene al filone del giallo. No, nemmeno al poliziesco all'italiana. Non solo perché nei primi tre libri non ci sono indagini su omicidi freschi (scordatevi Jessica Fletcher e l'ispettore Barnaby, che hanno almeno due morti a episodio) - cosa che potrebbe apportare un briciolo di realismo alla serie, contrapponendosi ai Don Matteo del caso, dove è irreale che Gubbio subisca ogni anno così tante perdite.

Il genere super-trash a cui appartiene è il motivo per cui poi mi ci sono attaccata, ormai in pace con me stessa, per lo stesso motivo sciocco per cui guardo i film dello stesso genere in TV.

Andiamo con ordine, partendo dal primo (audio)libro: no, non ci avrei speso soldi nel comprarli, ma ormai avevo iniziato l'abbonamento su Audible e sapevo che questa serie era piaciuta. Potrebbero seguire piccoli spoiler (meno che posso).


L'imprevedibile piano della scrittrice senza nome
(il titolo, lo spoilero subito, non fa riferimento alla trama gialla, che è sempre in secondo piano ed evidentemente non interessa alla scrittrice) esce nel 2015 ed è l'esordio letterario di Alice Basso, fino a quel momento redattrice per case editrici, come la sua protagonista. Spero che le somiglianze si interrompano agli studi classici e alla carriera, perché Vani Sarca è uno dei personaggi più odiosi, saccenti, improbabili e superbi di cui mi sia mai capitato di leggere.

Si tratta di un personaggio fintissimo e non solo per la scarsa fatica che ci ha messo l'autrice a descriverla fisicamente: è Lisbeth Salander (come se io per leggere un libro dovessi essermi per forza letta la saga di Millennium, che non mi ha ancora ispirata, o visti i film). Il suo difetto principale non è neppure credersi intellettualmente superiore a qualsiasi altra creatura che respiri e dichiarartelo almeno una volta per capitolo (dal secondo romanzo in poi, perché nel primo lo fa in media una volta ogni due pagine), ma il fatto che non sia credibile per due ordini di ragioni.

Nell'esordio, che ho cercato di perdonare proprio in virtù del fatto che si devono un po' introdurre i personaggi e le dinamiche, abbiamo questa ghostwriter, abile come nessuno mai nel mondo, che lavora per Edizioni Erica. In modo eccessivamente didascalico (ossia spiattellandoti vita, miracoli e motivi di risentimento della protagonista, tutto nei primi capitoli, senza andare avanti mai con la trama ー come se in effetti ci fosse) è spiegato che Vani è sostanzialmente una profiler e un genio per natura. Non ha avuto addestramenti, lei è nata profiler: vede le persone due minuti (a volte non le vede nemmeno, le sente solo raccontare da altri osservatori, ma qui siamo ai poteri di Superman che sfoggia nel terzo libro) e sa perfettamente come si comportano, cosa pensano e quali sono le loro motivazioni e i loro punti deboli. Questo suo dono di nascita le consente con facilità di essere un camaleonte: qualche ricerca su Google e immaginarsi di essere un chirurgo o un notaio e lei è perfettamente in grado di fare quel mestiere come se lo avesse studiato per anni e sa tutto di quegli argomenti, così da scrivere i libri per la sua CE o improvvisare un contratto a prova di avvocato (eventi raccontati nei libri, non iperboli). Direi che si vede benissimo il primo motivo per cui non è un personaggio credibile: questa cosa è semplicemente assurda. C'è meno sospensione della realtà nel leggere Harry Potter!

Uno dei motivi di risentimento nella vita è essere sempre stata considerata diversa, dalla famiglia e dalla società; l'altro motivo è la sua invisibilità, soprattutto dopo aver ideato la trama del libro di maggior successo della decade, senza poterlo dire a nessuno. [Si potrebbe aprire un capitolo sull'arroganza con cui l'autrice è convinta che aver legato insieme i personaggi letterari americani in una fanfiction sia un colpo di genio e non un temino scolastico, ma lasciamo stare.]

Qualche tempo dopo l'uscita di questo capolavoro di metanarrativa americana, l'autore che figura nella firma del libro, il professore universitario Riccardo Randi, la riconosce a una presentazione e i due cominciano a frequentarsi. Da qui parte la trama del libro, che verterà principalmente su questo aspetto. Secondariamente, le viene assegnato l'incarico di scrivere il successivo libro di una sorta di medium di angeli, che finora si è occupata di libri sostanzialmente di life coaching. Quando questa donna, Bianca, scomparirà, Vani intuirà un rapimento e inizierà a collaborare con il commissario di polizia, Romeo Berganza.

Dobbiamo fermarci per due considerazioni: la prima è che succede frequentemente che Vani indovini un fatto o una sua conseguenza logica, senza assolutamente considerare le altre possibilità (il rapimento, piuttosto che un malore o un omicidio e, in una differente circostanza, la natura omosessuale o addirittura asessuale di un personaggio, piuttosto che, semplicemente, l'infertilità come causa per non aver avuto figli). La seconda è che, non appena il commissario ci viene descritto come un personaggio assolutamente degno di nota ー subito, immediatamente ー si capisce fin troppo bene che la dinamica al centro di tutti i primi romanzi sarà una sola. Riuscite a indovinare? Naturalmente, il triangolo.

Vani risolverà il caso facendo ricerche su Google per il suo lavoro (non sto scherzando, va proprio così) e improvvisandosi esperta di mediazione in caso di rapimento. Su questo essere al contempo Morgan e Reed della situazione ci torneremo. In ogni caso, la scarsa credibilità con cui il caso è risolto mi ha fatto venire il voltastomaco. Non si è trattato, come dicevo all'inizio, né del classico giallo, in cui un detective (esperto o improvvisato che sia), pone domande a dei sospetti (presenti fin dall'inizio e tra cui si nasconde il colpevole, come vuole la prima regola del decalogo di Knox, sennò è giocare sporco), né il poliziesco italiano in cui comunque ci sono delle indagini da seguire, anche se più in base all'ispirazione del protagonista che a una logica ferrea, che possa seguire anche il lettore. No: mentre Vani è presa a fare cose che riguardano la sua vita sentimentale, di sfuggita le scappa anche di risolvere il caso, così, per sbaglio. Il responsabile compare anche tardissimo, praticamente a fine libro!

Questo è a tutti gli effetti un romanzo rosa o, se vogliamo dirlo altrimenti, sono le avventure di Vani Sarca. Non è un giallo e, secondo me, è troppo indirizzato verso il pubblico femminile (e non tutto).

A questo punto avrei volentieri smesso di seguire la serie, eppure ho proseguito...perché? La risposta più probabile è che semplicemente io sia una masochista. La seconda risposta è che volevo vedere se avrebbe continuato come romanzo rosa o si sarebbe ricordata la pretesa di essere altro. La terza risposta, quella che mi do per salvare le apparenze, è che il primo libro di una serie ha una storia a sé e, per non fare come ho già fatto con Petra Delicado e Clara Simon, forse gli si può dare una seconda possibilità. Ormai ce lo aveva già chiarito l'autrice, in ogni modo, che Vani è super capace in quel che fa, no? Non ci sarà mica bisogno di ribadirlo ogni piè sospinto anche nel secondo libro?

C'era bisogno, evidentemente.

Scrivere è un mestiere pericoloso (tranquilli, i titoli sono tranquillamente intercambiabili, perché non si riferiscono mai alle indagini) vede ormai Vani alternare due lavori: quello di ghostwriter nella sua casa editrice e quello di consulente della polizia, come esperta in comunicazione. Gli incarichi lavorativi convergono, in questo caso, poiché, mentre deve intervistare la vecchia cuoca, ormai vicina alla demenza senile, della famosa famiglia di sarti torinesi Giay Marin, questa rivela che è stata lei a uccidere il primogenito della famiglia, Adriano, cinque anni prima, e non il di lui fratello, Aldo. Vani, dunque, deve da un lato raccogliere aneddoti e ricette della signora Irma Envrim, dall'altro verificare che abbia dichiarato la verità e che non abbia ammesso l'omicidio solo perché svanita e perché abbia atteso cinque anni per farlo.

Ci troviamo stavolta di fronte a un cold case, la cui risoluzione spezza un'altra delle regole del buon Knox, la quarta: un lettore che non conosce quel che spiega Vani, non potrebbe mai risolvere il mistero (e in pochi credo che conoscono la tecnica di cui parla).

In ogni caso, finalmente, in questo libro ho capito il genere a cui appartiene questa serie e l'ho scoperto quando Vani è invitata al ballo di Natale dai Giay Marin, che le mandano un principesco abito su misura per l'occasione. Vi fa venire in mente niente?

A me ha ricordato gli scadentissimi film televisivi, con trame tutte uguali, della casa di produzione canadese Hallmark (quelli spesso a tema natalizio che TV8 trasmette da mattina a sera dall'avvento a Pasqua, per intendersi).

Come già detto, questi libri trattano delle avventure sentimentali della protagonista, che si ritrova in romantici appuntamenti a pranzare in riva al fiume o, a sorpresa, in una pasticceria di lusso, oppure, "costretta" a prendere ripetizioni di cucina, sempre romantiche, perché deve scoprire se le ricette della vecchia Irma sono davvero come gliele ha dettate. Decisamente una sceneggiatura Hallmark.

Arresami a questa evidenza (chi è che non si perde a guardare quei filmastri, pur consapevole che sono prodotti di infima qualità e tutti uguali), non ho esitato ad ascoltarmi il terzo libro, per scoprire come si concludeva il triangolo amoroso. Infatti, ora che lo so, non ho più motivo per ascoltare anche il quarto e il quinto romanzo, anche se per spirito di completezza potrei intrattenermici mentre guido andando a lavoro.

Non ditelo allo scrittore prosegue sullo stesso filone del secondo libro. Da un lato Vani deve riuscire a rendere intervistabile un professore saccente, scontroso e maleducato, che si è scoperto essere il vero autore di una delle opere più importanti della letteratura; dall'altro la polizia deve scoprire chi è la talpa in un caso di mafia. La risoluzione di questo aspetto presenta la solita inverosimiglianza degli altri due casi e riemerge, quasi identico, il modo di risolvere il sequestro di Vani. La cosa che non mi torna è che, se in Criminal Minds ci sono vari agenti che hanno caratteristiche diverse, la cui combinazione consente di risolvere quasi tutti i crimini e prendere quasi tutti i cattivi, Vani invece non opera in squadra: è la mente e l'esecutrice. Si comporta sia come l'agente Reed, che ha dalla sua sconfinate conoscenze, sia come Morgan, che ha l'eroismo e l'intraprendenza, ma anche come l'empatica Prentiss oppure come il capo della squadra, Hotchner. Come già rilevato, questo aspetto duplice (perfino multiplo) incarnato nello stesso personaggio, già telepatico e onnisciente, è uno dei motivi di poca credibilità della figura; ma veniamo, finalmente, al secondo motivo.

Questo emerge un po' nel secondo romanzo e, più marcatamente, nel terzo: Vani, infatti, è al contempo sia un genio, sia completamente stupida, al punto da non cogliere il significato di quello che le dice lo spasimante, sul procinto di dichiararsi per tutto il libro, con affermazioni perfettamente comprensibili e interpretabili in una sola direzione, tranne che per la destinataria. Sia chiaro, non c'è sorpresa nello scioglimento di questo triangolo, ma il fatto che Vani caschi dal pero, forzando questo sdoppiamento di personalità per cui è un profiler superiore a tutti in ogni aspetto della vita, tranne che nelle relazioni sentimentali, è il secondo ordine di mancanza di credibilità.

Quest'opera mi ha fatto arrabbiare praticamente per tutto il corso dell'ascolto e non ci avrei perso tempo, se si fosse trattato di leggerlo. Il primo romanzo, in particolare, l'ho detestato. Gli altri due si riprendono un po', ma è pesantissimo sentire continuamente l'autrice sperticarsi in descrizioni di quanto è brava Vani, compreso dover psicoanalizzare gratis un tizio che incontra in macchina mentre va dalla sorella (ma c'è anche l'episodio delle due amiche al bar). Cosa dovrebbe essere, show don't tell? Non lo è, perché è ridondante e contraddetto subito dal fatto che Vani si autodichiara la numero uno in quel che fa, moltissime volte, cosa veramente pesante. Si riconferma, per me, l'antipatia per i personaggi che raccontano in prima persona. Non è la prima volta che constato che, all'opposto di avvicinarli al lettore, li rende più antipatici.

Anche i personaggi sono problematici: sono divisi in due gruppi, quelli che stanno antipatici a Vani e sono, pertanto, quasi integralmente negativi e quelli che le sono simpatici e, dunque, sono positivi. La via di mezzo c'è, ma è rara, anche perché la protagonista si circonda solo da pochissime persone, che vedono le cose a modo suo (e sono superiori alla media ー vogliamo dimenticare il primo romanzo in cui l'autrice ripete 2-3 volte che Berganza è un poliziotto davvero, ma proprio davvero, in gamba?) o proprio le somigliano caratterialmente.

Tutti gli episodi della Vani bambina o ragazzina mi sono rimasti indigesti: sostanzialmente si tratta, ancora una volta, di una ripetizione. L'avevamo capito nel primo libro che si sentiva incompresa a casa. Gli altri flashback, in terza persona, sono solo varianti delle prime.

Ma questi libri ce l'hanno qualcosa che li salva? Sì. La scrittura non è male, anzi, togliendo il suo essere didascalica fino al sottolineare due volte l'ovvio e le ripetizioni della bravura di Vani, è addirittura buona.

Giudizio: intrattenimento Hallmark, validissimo, per carità, ma non quel che ci si aspetta ⭐⭐

lunedì 6 maggio 2024

La donna in bianco è il libro più bello di Wilkie Collins?

 Premessa, dell'autore inglese, grande amico e collaboratore di Charles Dickens, La donna in bianco (1859) è il secondo libro che leggo, oltre al tanto atteso La pietra di luna (1868). Adesso so che voglio leggere tutto ciò che lui abbia scritto e su cui si possano mettere le mani, anche se non nella nuova edizione Fazi.

Confermo infatti il mio disappunto per l'edizione del bicentenario dalla nascita dello scrittore: oltre all'assenza di una vera prefazione, anche in questo caso ci si limita a due note dello stesso Collins (le sue prefazioni alla seconda edizione inglese e all'edizione francese, comunque molto interessanti sulla genesi dell'opera), di una vita dell'artista e soprattutto di un indice (santa pazienza!!!), noto anche alcuni punti in cui mi si stanno scollando le pagine dal dorso (all'inizio e alla fine).

L'indice sarebbe veramente necessario, poiché le pagine sono tante (840) e il racconto procede, come La pietra di luna, per testimonianze, cambiando il narratore. Ci spiega Collins, infatti, che rimase colpito dal modo in cui in un tribunale ogni testimone apporta la sua visione dei fatti e contribuisce a ricostruire una vicenda, sia pure per punti di vista diversi e, talora, inconciliabili.


La donna in bianco
è raccontata esattamente in questo modo: per lungo tempo dal punto di vista di due dei suoi protagonisti, ma in qualche momento servendosi della narrazione di personaggi secondari o marginali. Per ritrovare nel corso della lettura un punto in cui un personaggio ha detto o fatto qualcosa che mi tornerebbe comodo rinfrescare, il sacro sommario avrebbe fatto proprio comodo!

Il mistero, che rende questo un libro un giallo in senso lato, ancora una volta molto più simile a un romanzo di avventure, pubblicato a puntate su All the Year Round (la rivista di Dickens), è la misteriosa identità di una donna vestita di bianco, della quale solo alla fine del libro si conosceranno tutti i segreti (anche se qualcuno si può sospettare prima).

Questa donna viene incontrata, tra le strade di Londra, da uno dei nostri protagonisti, Walter Hartright, la notte prima di partire per Limmeridge, nel Cumberland, dove farà da maestro di disegno alle due sorellastre Laura Farlie e Marian Halcombe. L'identità della donna e i segreti che custodisce si legheranno in molti modi a questi personaggi, generando praticamente un thriller in cui il lettore sospirerà d'angoscia e patirà molte pene insieme ai protagonisti.

Una delle caratteristiche più spiccate nella narrativa di Collins, infatti, è proprio lo straordinario modo in cui rende vivi i personaggi, caratterizzandoli a tutto tondo, mostrandoceli negli atti e nei sentimenti. Ritengo quasi impossibile non affezionarsi loro e non partecipare con ansia alle loro vicende. Nella stessa prefazione, infatti, l'autore ci racconta:

"Le due protagoniste, ad esempio, Laura e Miss Halcombe, riscossero una tale simpatia che, quando a un certo punto della storia l'una o l'altra sembravano in qualche modo minacciate, ricevetti numerose lettere che, molto seriamente, mi pregavano di «salvare le loro vite»!"

Non è cambiato nulla, credo, in questo, col passare degli anni, anche se si tratta di un secolo e mezzo. Ritengo, infatti, questo romanzo molto più un thriller che un giallo, per la suspense che riesce a creare lo scrittore. Le mie parti preferite, in effetti, sono state proprio quelle relative alle due donne e scritte attraverso il diario di Marian.

Quel che è cambiata, senza dubbio, è la nostra sensibilità su altri aspetti, per esempio la questione femminile. Di Marian si fa fin da subito un ritratto molto appassionato ed è sempre mostrata come una donna fuori dall'ordinario per tempra, coraggio, forza e astuzia; un esempio da ammirare, una vera eroina, che ci viene contrapposta, però, alla normalità delle altre donne e questo sia per sua bocca, in una delle prime scene che la vedono interagire con Walter, sia in generale, poiché è spesso paragonata, trovandola simile, a un uomo. Lungi da me rimproverare di questo un uomo che è nato duecento anni fa, però anche ne La pietra di luna uno dei personaggi, Betteredge, esprime compassione per la pochezza delle donne, riferendosi in particolare alla moglie. In quell'occasione non diedi troppo peso alla cosa, perché questa era l'opinione di un anziano servitore, ma, trovando questo pensiero ripetuto, comincio a notarlo con maggior fastidio, mentre in altri romanzi, anche di quel periodo, non avevo ancora trovato quest'opinione così schiettamente espressa. Leggerò altri uomini del tempo e cercherò meglio se ne hanno scritto con tanta chiarezza.

In ogni caso questa è la sola nota dolente, se proprio se ne deve trovare una. Alcune rivelazioni o colpi di scena nel romanzo, possono, inoltre, apparire un po' scontate per il lettore di oggi, ma -come la questione femminile- va calata nel contesto in cui è stata scritta l'opera, agli albori di questo genere letterario. Sono pertanto i nostri scrittori contemporanei a non aver inventato nulla, anche se, forse, ne sono convinti.

A me La donna in bianco è piaciuto pazzamente: intriga, emoziona, ha personaggi fatti molto bene (elemento che avevo riscontrato già in La pietra di luna e che ha spinto i lettori di allora a chiedere a Collins chi erano le controparti nella realtà di Marian -per sposarla- o dell'ambiguo Conte Fosco). Ha un'atmosfera di mistero e pericolo che avvince e invita alla lettura, eppure anche nei momenti di massima paura per le sorti dei personaggi, c'è qualcosa di confortevole. I colpi di scena non mi sono sembrati scontati. La trama (e la sua struttura), in ogni caso, è l'elemento più riuscito di tutti. Pur, ormai, non riuscendo originalissima, è così ben costruita che a ogni cambiamento di situazione nasce un nuovo "riusciranno a...?". Anche i più osannati autori di thriller di oggi non riuscirebbero a fare altrettanto.

Personalmente, inoltre, ho trovato più intrigante (e mi è piaciuto di più) questo romanzo, rispetto a La pietra di luna: diciamocelo, un furto non è un argomento così interessante, come il pericolo di un omicidio 🙊. Poiché, però, ho trovato molto bello anche l'altro romanzo, paradossalmente consiglierei di approcciare la lettura di Collins da La pietra di luna e proseguire in crescendo con La donna in bianco. Nel frattempo mi sono procurata usata la raccolta di Sellerio Tre storie in giallo.

Giudizio: ⭐⭐⭐⭐⭐

domenica 5 maggio 2024

Luis Sepulveda ci porta le Ultime notizie dal sud

 "Sognavo e ancora sogno quella macchina a vapore. Non so se sono un uomo coraggioso, ma so che non temo la morte perché l'ho sempre vista legata alla vecchia locomotiva. Mi aspetta su un binario deserto, io infilo le ultime monetine nella fessura, le bielle iniziano a muoversi, escono sbuffi di vapore, salgo senza voltarmi indietro e me ne vado. Tutto qui."

Con parole sognanti, Luis Sepulveda ci accompagna ancora una volta in Patagonia. 


Come in Patagonia Express (1995), nato dall'incontro con Bruce Chatwin a Barcellona, l'autore cileno, armato di una moleskine, ripercorre, a distanza di anni (2011), i paesaggi della Terra del Fuoco, immortalati dalle fotografie di Daniel Mordzinski, e racconta alcuni episodi di quel che lui e il fotografo hanno visto, incontrato, vissuto nel viaggio intrapreso insieme nella seconda metà degli anni Novanta, al di sotto del 42° parallelo.

Lo scrittore ci spiega subito che sono stati gli ultimi testimoni di molto di ciò che videro e che adesso non c'è più, probabilmente cancellato, abbattuto dal progresso. La testimonianza di una Patagonia selvaggia e perduta rende, dunque, ancora più preziosa la lettura di Ultime notizie dal Sud (161 pagine, Guanda), già resa speciale dalle numerose fotografie presenti.

Gli episodi raccontano di luoghi sperduti e di persone che resistono all'avanzata del progresso contrapponendo i loro diversi e antichi modi di vivere: dal triste addio all'amico e scrittore Osvaldo Soriano, a cui il libro è dedicato, al liutaio che cerca il pezzo giusto per il suo lavoro, passando dalla signora Delia, dal primo artigianato cinematografico della Patagonia e dall'ultimo viaggio del Patagonia Express.

La scrittura di Sepulveda è sempre poetica e soave, ma si avverte non poca rabbia, quando l'autore denuncia i cambiamenti imposti da una nuova modernità asettica e incapace di comprendere i bisogni di chi vive veramente quei luoghi, come quando racconta l'impossibilità di scoprire a che ora parte il treno per la Patagonia, perché le ferrovie sono state privatizzate e la nuova burocrazia ha perso il contatto con la realtà e con la gente. Ancora più dura la critica agli stranieri, che non comprendono la terra che comprano, ma hanno denaro sufficiente per farlo e dunque possono prendersi gli appezzamenti che desiderano, cacciando i locali, o requisire il treno che serve agli abitanti del villaggio di El Maitén per raggiungere i servizi principali di Esquel.

Personalmente, ho trovato questo libro molto bello, sia per la scrittura di Sepulveda, piacevole e appassionata, sia per la sua straordinaria sensibilità nel raccontarci questi episodi surreali e magici di un mondo che sembra non esserci più. Mi è piaciuto e lo raccomando (come Patagonia Express e per gli stessi motivi) per leggere di avventure estremamente distanti dal nostro modo di vivere, restituite intatte nella loro atmosfera e nel loro sapore autentico.

Giudizio: ⭐⭐⭐⭐

lunedì 29 aprile 2024

Da "Se i gatti scomparissero dal mondo" mi aspettavo di più

 Non so se il problema sono io. Non so se è la letteratura giapponese. Non che io e la letteratura giapponese ci frequentiamo proprio così accanitamente, a dirla tutta.

Però, in effetti, tirando un bilancio, non ci capiamo. Questa è la quarta volta (e il terzo autore) che va male. Dopo L'abito di Piume di Banana Yoshimoto, dopo i primi due libri della "Saga del caffè" di Toshikazu Kawaguchi, anche il romanzo di Kawamura Genki, di cui avevo tanto ben sentito parlare, per me si è rivelato un ni.


Se i gatti scomparissero dal mondo
è un libriccino, edito da Einaudi, di 159 pagine + glossario. 

La storia inizia quando un uomo, un postino, scopre di avere pochi giorni di vita. Riceve dunque una visita inaspettata, nientemeno che dal Diavolo, che gli propone il classico patto: giorni di vita in più, in cambio di...? [Spoiler: titoli dei capitoli.]

Si tratta di un libro-riflessione sul senso della vita e delle piccole cose che ci circondano: i film, gli orologi, i cellulari... Ogni oggetto o cosa che il protagonista analizza perché potrebbe perderla diventa spunto di riflessione. Di cosa vale la pena circondarsi? Di cosa invece no? Ogni cosa ha un pro e un contro? Probabilmente sì, tranne una: naturalmente il gatto.

Il protagonista condivide, infatti, con Cavolo una storia molto tenera, che ci verrà svelata a poco a poco (oltre a dirci molto spesso che è così incredibilmente morbido).

Perché non mi è piaciuto questo libro? Fondamentalmente perché l'ho trovato banale. Almeno per me, raccontava quelli che per me sono fatti assodati o cose scontate. Non so se la sensibilità occidentale e giapponese non si incontrano, ma quel che dovrebbe essere un testo profondo, ai miei occhi è risultato solo banalotto e sdolcinato.

Inoltre, non so è la traduzione stessa il problema o se la lingua giapponese è ripetitiva, ma mi hanno terribilmente stonato i continui sostantivi preceduti da "il mio adorato".

Lo stile di scrittura in generale è molto semplice e i personaggi sono appena abbozzati. Come mi era capitato di osservare nella serie "del Caffè", si tratta più di ruoli, di stereotipi, quasi, che di personaggi (o per lo meno li percepisco così, distanti).

Perché, invece, è un ni e non un chiaro no? Anche se molte riflessioni sono state un po' blande e alcuni concetti anche un po' ovvi, per non parlare dell'andamento del libro, palesemente svelato dai titoli dei capitoli (non ho parole!), alcuni spunti di riflessione li ha forniti anche a me.

Il protagonista, per esempio, compila la classica lista delle 10 cose da fare prima di morire e questo ha generato alcune considerazioni slegate dall'andamento della trama, di cui farò comunque tesoro. Dunque qualcosa me lo ha lasciato lo stesso, pur riconfermandomi la stessa sensazione lasciatami dagli altri (pochi) libri giapponesi che ho letto: la straordinaria rivelazione di cui parlano è più vicina alla scoperta dell'acqua calda, che a una sorsata di Acqua della Vita.

Giudizio: ⭐⭐ 1/2

martedì 16 aprile 2024

Omicidio al Grand Hotel riesce a essere un giallo classico

 Vienna, 1922: il farmacista sessantenne Anton Böch ha come inquilina l'insegnante in pensione Ernestine Kirsch, di cui è anche un po' innamorato, che lo trascina in un week end sul Semmering. Al Grand Hotel Panhans, infatti, è stato organizzato un corso di tango per ricchi membri della società viennese. Come in un giallo classico, l'albergo rimarrà isolato da una tormenta di neve e capiterà l'omicidio che permetterà alla neo coppia di detective in erba di mettersi alla prova. Tutto il mistero ruota alla prima guerra mondiale, permettendo all'autrice di raccontare qualcosa del conflitto svoltosi sul Fronte Meridionale.


Omicidio al Grand Hotel
è il primo romanzo della serie di Ernestine e Anton, investigatori dilettanti nella Vienna del primo dopoguerra. Questi gialli, scritti dalla viennese Beate Maly, classe 1970, sono pubblicati da Emons nella collana Gialli Tedeschi. Sono già stati tradotti in italiano (in ordine, come è scritto sotto ai titoli, per agevolare il lettore nel riconoscere la cronologia) anche  Morte in scena a Vienna e Omicidio sul Danubio. Poiché mi è molto piaciuto questo esordio, sono sicura di acquistare anche i seguiti. Questa (al momento) trilogia è caratterizzata anche dalle copertine, che presentano motivi Art Nouveau.

Questo romanzo d'esordio inizia in modo abbastanza lento: giustamente ci deve anche fornire l'introduzione ai protagonisti. Il ritmo non è mai forsennato, ma non annoia mai, anche perché nessuna pagina è inutile e ogni riga fornisce un'informazione mai superflua. La giallista dissemina pezzettini di puzzle per tutta la narrazione e il buon lettore di gialli ha tutto il necessario per arrivare alla soluzione del caso da solo. Io ho fallito, ma riconosco che Frau Maly ha giocato pulito. In questo il mistery è davvero costruito come un classico, col detective, gli indizi, gli interrogatori, oltre all'ambientazione (luogo isolato, solo i presenti possono aver compiuto l'omicidio).

Riguardo ai personaggi, abbiamo Anton, bon viveur, amante della buona cucina e innamoratissimo nonno. Lavora con la figlia, rimasta vedova di guerra e conduce un'esistenza serena, anche se segnata dalle esperienze del conflitto appena concluso. Queste esperienze, tuttavia, gli hanno anche fornito alcune conoscenze che si rivelano utili nello svolgere, suo malgrado, le indagini. Durante il soggiorno al Panhans preferirebbe gustare le raffinata cucina del cuoco, piuttosto che ballare il tango o intrufolarsi nelle camere altrui.

In queste avventure è, infatti, trascinato dalla travolgente Ernestine, poco meno che sessantenne, ma attiva e dalla curiosità viva. Nella "coppia" (non ufficiale, ma chissà che prima o poi non si dichiarino - questo lato romance non è marcato, ma la simpatia reciproca c'è) è lei che si lancia audacemente nelle indagini, e, da ex-insegnante, ha anche l'autorevolezza necessaria a farsi prendere sul serio dagli ospiti dell'albergo, che, ben o mal volentieri, si affidano a lei in assenza della polizia (elemento necessario a farla agire come detective).

Ernestine prende l'iniziativa e Anton si rassegna a starle dietro, preoccupato che non si cacci in guai troppo grossi: esattamente il rapporto che hanno i disneyani Bianca e Bernie.

"Non è terribilmente eccitante?" chiese, battendo le mani.

"Terribile, sì. Eccitante non saprei."

"Suvvia, Anton," aggiunse lei, rifilandogli una leggera gomitata nelle costole. "L'eccitazione mantiene giovani. Ci costringe a sforzare la materia grigia. [...] E qua non stiamo risolvendo un cruciverba o leggendo un romanzo a buon mercato, è un crimine vero e proprio!"


In conclusione ho trovato questo giallo ben fatto e molto piacevole da leggere: è leggero e abbastanza breve (249 pagine), divaga molto poco e quando lo fa, descrivendo ad esempio i deliziosi pranzetti dello chef del Panhans, è per restituite un atmosfera piacevole e rilassata.

Giudizio: ⭐⭐⭐3/4

martedì 9 aprile 2024

Oscura e Celeste: Marco Malvaldi rende Galileo Galilei un detective

Anno Domini 1631, Firenze. Imperversa la peste fra le strade della capitale del Granducato di Ferdinando II e padre Niccolò Riccardi aspetta che Galileo Galilei gli invii finalmente questo Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo, dove il matematico dovrebbe dimostrare la possibilità del moto della Terra intorno al Sole, già teorizzata da Copernico (possibilità che, naturalmente, non è reale, come si aspettano che scriva Galileo, a causa di quanto scritto nella bibbia). Come sappiamo, per quell'opera il matematico finirà davanti all'inquisizione.

Quel che di interessante, però, ci propone Marco Malvaldi (toscanissimo autore dei gialli del BarLume, ma anche di saggi -è un chimico- e di gialli storici -per esempio quelli di Pellegrino Artusi- e altre opere) in questo giallo storico, è la sua teorizzazione di cosa combinò Galileo in un piccolo intervallo di tempo non conosciuto, non descritto nelle lettere che scriveva alla figlia, suor Maria Celeste, proprio perché le abitava accanto, nella Villa Il Gioiello di Arcetri.


Esattamente come (vedi ultimo articolo del blog) Estleman ha trovato lo spiraglio in cui far interagire Sherlock Holmes e Dracula, nei momenti in cui il vampiro non compare nel romanzo di Stoker, nell'intervallo di tempo in cui non si hanno informazioni sulle attività di Galileo, Malvaldi ha sviluppato questo romanzo, bello intricato di trame e sottotrame. Oscura e Celeste è edita da Giunti e presenta un totale di 348 pagine.

La trama del giallo vede al centro il convento di San Matteo in Arcetri, convento di suore di Santa Chiara, tra cui le due figlie di Galilei. Nel bel mezzo della peste e degli intrighi gesuiti per capire cosa sta scritto dentro al Dialogo, una suora è ritrovata morta. Si tratta di Suor Agnese, amica di suor Maria Celeste, donna intelligente e istruita, tanto da interessarsi al lavoro di Galileo e conversare spesso con lui di scienza. Il matematico non può, dunque, esimersi da aiutare il canonico Cini (ex allievo di Galileo stesso e incaricato dal Granduca proprio di far luce su questioni poco chiare che covavano in quel convento) nelle indagini su quanto accaduto alla ragazza.

A questa storia si intrecciano altre vicende, storiche e non inventate, che Malvaldi monta abilmente insieme per poter dare un quadro del tempo, dalle scoperte astronomiche all'operato della Chiesa e dei suoi ordini di monaci e suore, passando per le condizioni di vita nei conventi e nelle città, per la politica; toccando di sfuggita anche la storia di Artemisia Gentileschi.

Lo stile dell'autore è leggero, scorrevole, soprattutto divertente; strizza l'occhio al lettore e commenta gli avvenimenti, li spiega al pubblico del Ventunesimo secolo (uno stile per tutti, insomma, anche i meno dotti, pur inserendo spiegazioni del funzionamento dell'orologio ad acqua, la dimostrazione degli indivisibili, etc, con tanto di disegni). Il linguaggio mescola comicità fiorentina (del resto alcuni personaggi parlano con inflessioni del volgo) e, nei dialoghi, un linguaggio seicentesco. Ho trovato questa scelta vincente, poiché alleggerisce molto e rende il libro fruibile in modo universale.

Va detto che, forse con lo scopo primario di ricostruire quello scorcio storico (Malvaldi acclude una vita di Galileo finale e una nota in cui spiega la genesi dell'opera), la trama gialla è molto diluita, passa in secondo piano ed è anche abbastanza semplice. Ci sono svariati elementi di mistero, tuttavia, (anche se puntano un po' tutti in quella stessa direzione). Gli interrogatori sono condotti in modo abbastanza classico, col detective (il Cini, spesso su suggerimento di Galileo) che fa le domande a ciascuno dei possibili interessati o possibili conoscitori dei fatti. Ho apprezzato questo aspetto. Anche la risoluzione finale, coi detective che svelano a un piccolo pubblico come stavano i fatti, richiama la classica situazione di un Poirot che spiega il delitto. Tuttavia, avevo capito la persona colpevole un po' troppo presto.

Giudizio: una lettura molto piacevole, un buon intrattenimento con elementi storici più riusciti e interessanti di quelli mistery ⭐⭐⭐⭐

Il mio primo apocrifo Holmesiano: Sherlock Holmes contro Dracula

Che cos'è questo titolo che suona come Godzilla vs King Kong?
No, non è una trashata. Lo aveva consigliato la bravissima Federica della pagina La stanza di Sherlock, che presenta costantemente una serie di spunti a cui è impossibile stare dietro, ma che vorrei leggere dal primo all'ultimo.
Si tratta di un romanzo breve, un apocrifo sulle gesta del detective dei detective, ossia Sherlock Holmes. Cos'è un apocrifo? Una narrazione su un personaggio letterario, ma scritta da un altro autore. 
Questo romanzo, dunque, non è di Arthur Conan Doyle, ma di Loren D. Estleman, grande appassionato delle avventure di Holmes e Watson, così appassionato che ne scrisse altre, fin da giovanissimo.

Il mio rapporto con Sherlock nasce da bambina, quando uscì la collana in edicola di Fabbri Editore con tutti i romanzi e i racconti scritti da Doyle e, a seguire, dai suoi "eredi". Non ho mai letto l'intero canone (ovvero le opere originarie, scritte dal vero creatore del personaggio), poiché ho letto solo tre romanzi su quattro e due raccolte di racconti su cinque, ma ho, certo, cominciato molto male il mio rapporto con gli scritti apocrifi. Mi fu regalato anni fa una raccolta, I casi orientali di Sherlock Holmes di Ted Riccardi, che non dovettero piacermi, poiché li interruppi a pagina 56/383. Se lo avessi terminato lo avrei considerato il primo apocrifo, ma non è andata così.
Devo dire, però, che la lettura del racconto lungo/romanzo breve di Estleman mi ha riconciliato con questa parte della letteratura, tanto che ne ho acquistati altri tre, da provare, tra cui il famoso La soluzione al sette percento (uno, pare, dei più famosi in assoluto) di Nicholas Meyer, del 1973, di poco precedente il pastiche di Estleman, del 1978.


Del resto nessuno meglio dello scrittore di gialli e western del Michigan, oggi settantenne, avrebbe potuto compiere meglio questa impresa: fu uno dei pochi autori a cui la figlia di Doyle concesse il "permesso" di continuare a pubblicare opere tratte dalla materia del padre. Vi rimando all'intervista sulla pagina di Federica, per saperne di più.

Venendo alla storia, mi piace molto il lavoro che ha compiuto Estleman. Riflettendo sul fatto che la storia di Dracula (1897), di Bram Stoker, è ambientata nella Londra del 1890, lo scrittore si è accorto che la venuta del Nosferatu nella capitale inglese non sarebbe potuta essere ignorata dal detective apparso sulle scene nel 1887. Inserendo, dunque, i due personaggi nello stesso universo narrativo, per forza di cose, si sarebbero dovuti incontrare.
Rispettando, con pochi accorgimenti (lasciando a una disputa tra i due narratori delle due distinte versioni, quella di Watson e quella del Professor Van Helsing, la discussione sulle date, col pretesto che il Professore intendeva negare l'aiuto ricevuto da Holmes), la trama di Dracula e lo stile di Doyle, Estleman ricostruisce il contributo di Sherlock Holmes alla sconfitta del Principe delle tenebre. Nei retroscena in cui i personaggi di Stoker non interagiscono col vampiro, infatti, resta lo spazio di manovra per farlo rapportare proprio al detective e al suo fedele compare.

La storia originale non è, quasi per niente, alterata e viene data per scontata. Questo breve romanzo (182 pagine, in Italia edito da Gargoyle), dunque, è solo un'integrazione, molto avvincente e che io ho trovato perfettamente in linea con la scrittura degli altri testi originali. In particolare, l'atmosfera e i personaggi di Watson e Holmes mi sembrano veramente rispettati, fatti rivivere. Mi è sembrato meno riuscito il Conte Dracula, che non mi sarei aspettata di vedere nella veste in cui compare sul pianerottolo del 221B di Baker Street. A dirla tutta, dover far collimare la nuova avventura col canone Stokeriano costringe un po' Dracula a non comportarsi come il più grande male del mondo (idea che ci siamo fatti di lui dal romanzo dell'irlandese). Potrebbe annientare i suoi due nuovi nemici, ma non lo fa (questo un pochino mi stride).

A breve mi attende il prossimo di questo autore, Lo strano caso del Dottor Jekyll e Mr Holmes.

Giudizio: Davvero apprezzato ⭐⭐⭐⭐