venerdì 31 ottobre 2025

Cardospina mi ha stupito in positivo: l'urban fantasy che è contro la guerra

Non si può distruggere un atto di distruzione.

Però, si poteva continuare a raccontare.

Comprai usato Cardospina di GennaRose Nethercott (Mondadori, 372 pagine) due anni fa e ho scelto questo mese di ottobre, con l'avvicinarsi di Halloween per leggerlo finalmente. Ero convinta si trattasse di una storia tra il gotico e il folkloristico che rielaborasse le origini di Baba Yaga, cosa che comunque fa, ma iniziando a leggerlo mi sono trovata davanti piuttosto un urban fantasy. L'ambientazione è negli Stati Uniti dei giorni nostri, ma gli eventi sono fantastici, anche se la storia affonda le sue radici in un evento del dicembre 1919. Un ultimo atto da compiersi, un secolo dopo l'evento da cui aveva avuto origine tutto, è quello che affronta questo romanzo, dal forte messaggio pacifista. Non specificherò meglio, ma il tema che tratta è piuttosto delicato.

"Forse, se all'epoca le persone non coinvolte avessero fatto la cosa giusta, le cose sarebbero andate in modo differente."


Bellatine e Isaac Yaga sono gli ultimi discendenti a cui va in eredità la particolarissima casa di Baba Yaga: una casa con piume, penne e due zampe artigliate di pollo, in grado di muoversi. Ma la casa, ribattezzata da Bellatine Cardospina, non è la sola a essere magica. I due fratelli non si vedevano da un po' di tempo e ciascuno dei due nasconde all'altro segreti e sentimenti. L'eredità non solo li rimette in contatto, ma dà anche il là perché intraprendano insieme un viaggio per gli USA, esibendosi come marionettisti, grazie a Cardospina. Il viaggio, tuttavia, si trasforma in una fuga, perché sulle loro tracce (dei fratelli o di Cardospina?) si mette una figura oscura che semina paura e perdite. Quando dall'Europa giunge la casa, compare anche questo misterioso uomo e una scia di strani eventi, tutti connessi a paure e figure di fumo e ombra. Che cosa vuole e cosa vogliano i membri di una squadra che a sua volta lo sta cacciando? E Cardospina perché è una casa vivente? Ha messo le zampe per scappare da cosa? E i due fratelli...anche loro rifuggono qualcosa. Loro stessi?

La narrazione segue filoni e narratori diversi, alcuni in terza, altri in prima persona, ma i diversi fili della storia confluiscono piano piano per risolvere il puzzle della storia. Mi è piaciuto come l'autrice ha scelto di raccontare questa storia e sono rimasta piacevolmente sorpresa dalla scrittura, che ho apprezzato più di ogni altro elemento. Anche i dialoghi sono molto fluidi. Mi sono piaciuti i personaggi (alcuni sono rispondenti alle esigenze LGBTQ+ del momento); ho sentito solo un po' di stanchezza verso i due terzi del romanzo, quando sono inserite le storie d'amore e il classico litigio-allontana-personaggi che appartengono un po' a schemi pre-impostati che a me personalmente annoiano un po'. Tuttavia quel momento della storia che mi stava facendo un po' sbuffare, in realtà, è fondamentale per il finale della storia e l'ultimo atto è bello e ha un messaggio molto potente, anche se alcune idee su come sconfiggere il cattivo sono -a tratti- tirate per i capelli. Non tutto l'ingranaggio fila alla perfezione, secondo me: quando ci si incammina verso il finale e si comprende contro quale nemico si stanno battendo i protagonisti ci si domanda anche "ma prima dov'era?"

Giudizio: malgrado alcune piccolissime critiche che posso muovergli o elementi che normalmente non apprezzo particolarmente, la storia mi è piaciuta molto, è stata scorrevole e soprattutto mi è piaciuta la penna della Nethercott. Una vera scoperta. ⭐⭐⭐ 1/2

domenica 26 ottobre 2025

L'abbazia di Northanger: confronto romanzo-film

 Ho riascoltato in questi giorni su Audible L'abbazia di Northanger, la prima opera di Jane Austen, che, come gli altri romanzi, lessi tanti anni fa, nell'adolescenza. Confesso che non ricordavo praticamente nulla, a eccezione dell'adorazione della protagonista per I misteri di Udolpho di Ann Radcliffe. Strano come ci si ricordi di certi dettagli. Questo romanzo e Ragione e sentimento sono, probabilmente, quelli dell'autrice che meno ricordo.

L'ascolto è stato molto piacevole perché davvero non ricordavo quanto fosse divertente: la scrittura è frizzante, un costante umorismo descrive in modo serio le incongruenze della società e soprattutto prende in giro i personaggi che hanno una morale fragile. Sotto la penna della Austen l'accompagnatrice alla vita sociale di Bath della protagonista, svampita e interessata solo a come è vestita, Mrs Allen, l'ipocrita amica del cuore Isabella e il fratello di lei, Mr Thorpe, subdolo e fanfarone, sono esposti al ludibrio del lettore. Persino la protagonista è introdotta in modo faceto, con un tono così spiazzante e satirico per una scrittrice Ottocentesca, in un incipit memorabile, da lasciare sorpresi.

"Nessuno che avesse conosciuto Catherine Morland nella sua infanzia avrebbe mai immaginato che fosse nata per essere un'eroina."

E la sua descrizione nei primi paragrafi è altrettanto satirica.

"Una famiglia con dieci figli sarà sempre chiamata una bella famiglia, purché ci siano teste, braccia e gambe nella giusta proporzione; ma i Morland avevano poco altro per essere degni di quell'aggettivo, poiché erano in generale molto brutti, e Catherine, per molti anni della sua vita, brutta come tutti. Aveva una figura esile e goffa, una pelle giallastra e scolorita, capelli scuri e lisci e lineamenti marcati; questo come aspetto fisico; ma non meno sfavorevole all'eroismo sembrava la sua mente.

[...] Tale era Catherine Morland a dieci anni. A quindici, l'aspetto era in via di trasformazione; cominciò ad arricciarsi i capelli e a spasimare per i balli; la carnagione migliorò, i lineamenti si ammorbidirono, quando ingrassò un po' e si fece più colorita, gli occhi acquistarono più vivacità, e la figura più rilievo. L'amore per la sporcizia lasciò il posto all'inclinazione per i bei vestiti, e divenne pulita diventando elegante; ora aveva talvolta il piacere di sentire i commenti del padre e della madre sul suo miglioramento fisico. "Catherine sta diventando proprio una bella ragazza, oggi è quasi graziosa", erano le parole che di tanto in tanto le giungevano all'orecchio; e quanto erano graditi quei suoni! Apparire quasi graziosa, è un complimento che dà molta più gioia a una ragazza che era stata brutta per i primi quindici anni della sua vita, rispetto a qualsiasi altro ne possa ricevere chi è stata bella fin dalla culla."

Catherine Morland, la nostra protagonista, è una ragazza serissima per principi morali e totalmente naïve sulla società e sulle persone: è integerrima, ma sprovveduta, seria, simpatica e totalmente trasparente, tanto da spiattellare, quando ancora muove i primi passi nella vita di società, i suoi sentimenti e da credere alle parole di tutti. Appena arriva a Bath con i coniugi Allen, infatti, è subito preda della scaltrissima Isabelle Thorpe, che intende accalappiarsi il fratello di lei e che è similissima nei comportamenti e nel carattere a Lucy Steel di Ragione e sentimento. Catherine, tuttavia, si innamora fin da subito del reverendo Henry Tilney e scopre di essere simpatica anche al padre del suo beniamino, che la inviterà poi nella tenuta di famiglia, l'abbazia che dà nome al romanzo. Il vetusto luogo e il severo generale Tilney sono così suggestivi, che per Catherine è impossibile non nascondano misteri, ma quali sono i veri segreti e dove risiedono le doppiezze del prossimo sono proprio il tema di questa storia. 

Rileggerlo a breve distanza dal mio secondo incontro con Ragione e sentimento me lo ha fatto nettamente preferire per il tono acuto e scanzonato di L'abbazia di Northanger. L'autrice prende in giro tutto e tutti, compresa la letteratura e i colleghi autori. Questo romanzo è dunque quasi una parodia sia delle storie d'amore, sia dei romanzi gotici, che nutrono la troppo fertile fantasia di Catherine.


Ho poi guardato l'unico adattamento del romanzo (secondo Wikipedia), disponibile su Prime Video, con Felicity Jones che nel 2007 è perfetta nel ruolo della protagonista, con quello sguardo meravigliato che sfiora ogni cosa nuova a Bath con allegra semplicità e una Carey Mulligan totalmente in parte nel personaggio di Isabelle.

Ho trovato il film di Jon Jones una trasposizione incredibilmente aderente alla storia originale (così aderente da stupirmi, fino a iniziare la pellicola con l'incipit del romanzo e a terminarla con la morale finale), molto scorrevole (dura solo un'ora e mezza), con un cast azzeccato e un tono leggero perfetto. Le differenze rispetto al romanzo sono minime, come l'inserimento di una storia collaterale, appena accennata in realtà, alcune "concessioni moderne", ossia un risvolto particolare sul finale della storia di Isabelle e le conseguenze in forma di sogni, fantasie o incubi alle letture di Catherine, I misteri di Udolpho e Il monaco, per l'epoca spaventose e licenziose. Le variazioni sui personaggi di Eleanor Tilney e Isabelle Thorpe sembrano un voler riequilibrare i destini rispetto al romanzo, nel quale un personaggio positivo come Eleanor non sembra ottenere un lieto fine ed esce di scena fin troppo velocemente, mentre Isabelle è punita anche troppo poco per la sua doppiezza.

Giudizio: potrei rivalutare questa commedia di Jane Austen tra i miei preferiti, certo dopo Orgoglio e Pregudizio e Persuasione e il film è delizioso, nella sua semplicità (forse lo dico solo perché è fedele all'originale?).

Viaggio nella Svezia del 1852: Cucinare un orso

 Cucinare un orso (Iperborea, 515 pagine), dell'autore svedese contemporaneo Mikael Niemi, è un romanzo molto particolare. Inizialmente mi fu consigliato come romanzo giallo, ma successivamente ho sentito negare che lo fosse.

Questo ve lo chiarisco subito: è certamente un giallo, ma non classico, bensì storico e "all'italiana", ossia "alla Eco". Mi spiego meglio.


Svezia, 1852. Lars Levi Læstadius (che è esistito davvero, anche se l'opera è di fantasia) è un pastore protestante che fonda un movimento cristiano, chiamato Il Risveglio, contrario alla deriva locale della popolazione, spesso abusante di alcol. Læstadius è un uomo ormai anziano e stanco, severo, ma anche in grado di essere comprensivo e giusto. Adotta nella sua famiglia un trovatello sami, Jussi, discriminato dalla popolazione locale, ma considerato invece dal pastore molto intelligente, tanto da insegnargli non solo a leggere, a scrivere e la religione, ma anche a osservare i dettagli del mondo naturale (Læstadius è anche un famoso botanico) e non solo.

Quando scompare una giovane ragazza a servizio e viene poi rinvenuta qualche giorno dopo, Læstadius e Jussi giungono sul posto prima delle autorità locali e iniziano a osservare la scena, notano alcuni dettagli, che li porterà a diffidare della conclusione a cui giungono il giudice Brahe e il poliziotto. No, non è stato un orso ad aggredire la ragazza, ma contraddire il giudice e sollevare sospetti difficili nella comunità non è possibile, anzi: diventa molto pericoloso, soprattutto per chi già è in una posizione emarginata. La copertina del libro non è casuale e ritengo sia davvero bellissima.

Læstadius e Jussi ci ricordano un po' Guglielmo da Baskerville e Adso e lo sfondo è, come ne Il nome della rosa, uno scontro tra posizioni religiose. La stessa atmosfera, sebbene temporalmente distante, ricorda quel Medioevo che concepiamo come periodo buio, anche se Barbero ci ha ampiamente spiegato che non è così. Le indagini si svolgono in un clima di tensione e si dipanano lente nel corso del romanzo, frammiste a molto altro: uno scorcio socio-culturale sulla Lapponia del 1952, delle differenze e divergenze fra Sami e Svedesi e anche una riflessione teologica.

Mi sono piaciute molto la storia, l'atmosfera e la scrittura, ma alcuni punti sono crudi e ostici. Non si può non restare dispiaciuti e quasi disgustati per alcune pieghe che le vicende prendono, ma anche molto sorpresi dal finale, che lascia comunque un po' di amaro in bocca. Il mio giudizio sul romanzo è molto influenzato proprio da questo.

Giudizio: ⭐⭐⭐ 1/2

Il caso più famoso di Rouletabille: Il mistero della camera gialla

Rouletabille, il giornalista-detective che ha potere di osservazione e deduzione superiore a qualunque ispettore della Sûreté parigina, nato dalla penna di Gaston Leroux, forma assieme all'Auguste Dupin di Edgar Allan Poe e allo Sherlock Holmes di Sir Arthur Conan Doyle un po' il triumvirato dei primi detective agli albori del mistery, ma potremmo aggiungere il Monsieur Lecoq di Émile Gaboriau (anche se in Uno studio in rosso, Conan Doyle denigra, per bocca del suo protagonista, l'operato di Lecoq e Dupin).
Negli anni in cui scrivevano Gaboriau e Leroux, erano particolarmente in voga gli enigmi della camera chiusa, di cui diventerà uno specialista, per esempio, John Dickson Carr. Il mistero della camera gialla (1908) è il tentativo di Leroux sul tema e uno degli esempi più famosi nella storia del giallo.


Mademoiselle Mathilde Stangerson, figlia non più giovanissima dello scienziato Stangerson, insieme al quale lavora presso il castello di Glandier, in Francia, dove si sono ritirati dopo alcuni anni in America, è aggredita nel cuore della notte nella sua stanza. Il padre e un domestico sono testimoni delle grida della donna, chiusa nella sua camera, ma quando finalmente riescono a entrare, non c'è traccia dell'aggressore. Nessuno riesce a spiegare come qualcuno possa essersi introdotto o come abbia potuto fuggire da quella stanza, finché Joseph Rouletabille non riesce a farsi accettare come presenza al castello di Glandier per indagare, insieme a un rivale, il ben più affermato segugio della polizia, Frédéric Larsan.

La lettura è abbastanza scorrevole, un po' lento nelle descrizioni, anche se la mia edizione Newton Compton, usatissima (procurata a Kilolibro e con le 157 pagine in fuga dalla rilegatura), non ha una traduzione delle più moderne. Il punto principale che mi ha contrariata di questo romanzo, ma agli albori del giallo e di questo sottogenere in particolare è una regola e non un'eccezione strana, è che al lettore mancano gli elementi per arrivare alla soluzione. Il colpo di scena finale è l'obiettivo del romanziere, caratteristica propria del feuilleton, a cui i primissimi gialli somigliano molto di più che ai mistery del periodo di Dame Christie. Il punto è che Rouletabille, per comodità narrative, si trova già prima del caso ad aver assistito, in modo totalmente casuale, a scene che gli rivelano delle informazioni preziose e gli elementi cardine per la risoluzione dell'enigma li scopre poco prima di svelarci la soluzione, senza condividerli e rendendoci impossibile sospettare il personaggio giusto. Fino allo svelamento del nome, io sono stata totalmente convinta di un'altra pista e ogni elemento che leggevo mi confermava nella mia idea, ma mancano ancora 21 anni al decalogo di Knox e alla sua ottava regola.


Giudizio
: intrigante, ha quel sapore nostalgico dei gialli di inizio Novecento, ma non soddisfacente per una lettrice di mistery. ⭐⭐⭐

giovedì 23 ottobre 2025

Creature delle selve oscure di ABEditore

Creature delle selve oscure è un'altra delle curatissime raccolte di ABEditore che comprende otto racconti arricchiti di illustrazioni floreali e di creature del sogno e del mito.


La cosa nella foresta
di Bernard Capes mi è piaciuto molto, ha un bel colpo di scena e rimanda alle leggende e alle storie come quelle della bestia del Gévaudan.

L'Alloro di Mary Webb è un racconto quasi mistico, che narra di un legame fra le creature che dimorano negli stessi luoghi.

Compare nella raccolta anche un racconto di azione di Arthur Conan Doyle, Il demone della bottaia, ambientato in un'Africa misteriosa e scenario dell'arrivo di una presenza infestante nell'accampamento dei protagonisti.

Di Gustavo Adolfo Bécquer sono presentati due racconti, entrambi ambientati nelle valli del Moncayo: Gli occhi verdi, piuttosto classico, che vede un giovane di buona famiglia impazzire per gli occhi di una creatura incontrata nella foresta durante una battuta di caccia e Lo gnomo, particolarissimo per la struttura, che descrive la diversa reazione di due sorelle davanti alla stessa creatura misteriosa.

Anche di Hippolyte Sauvage sono inseriti due brevissimi testi: La fata della sorgente, che ha per protagonista una vendetta, e La quercia dei cacciatori, che ha per protagoniste delle creature con comportamenti molto simili a quelli delle baccanti.

Infine, forse il più inquietante della raccolta, ma molto bello, Acauã di Herculano Marcos Ingles de Sousa è a storia dell'influenza di una creatura portatrice di sventure, un leggendario grande uccello nero del Brasile, sulla vita di una famiglia.

GiudizioLa cosa nella foresta, Gli occhi verdiAcauã sono stati i miei racconti preferiti durante questa lettura, ma tutti i testi sono gradevoli e la raccolta è perfetta per l'atmosfera di una sera d'inverno, magari davanti a un bel fuoco.

Tra ritratti di creature del profondo Nord: Uomini e troll di Selma Lagerlöf

 Selma Lagerlöf è un'autrice svedese vissuta a cavallo fra 1800 e 1900, premio Nobel per la letteratura nel 1909 “per l'elevato idealismo, la vivida immaginazione e la percezione spirituale che caratterizzano le sue opere”.

Il mio primo approccio a questa Grande della letteratura è attraverso la raccolta, edita da Iperborea, Uomini e troll (160 pagine).


I racconti di questa piccola antologia sono molto particolari e, secondo me, si possono dividere in due blocchi:

da una parte abbiamo racconti puramente fantastici (come Il bambino scambiato, Il tomte di Töreby, Una vecchia storia di alpeggio, L'acqua di Kyrkviken, Lo spirito servitore) in cui questo mondo nordico e lontano è reso ancora più leggendario dalla presenza di troll e altre creature o oggetti magici o irreali;

dall'altro lato abbiamo una serie di ritratti di persone, reali, che popolano il Värmland, la contea occidentale della Svezia in cui la Lagerlöf ambienta La saga di Gösta Berling: Magister Frykstend o Mathilda Wrede.

Ho preferito soprattutto i racconti fantastici in cui morale e suspense si mischiano per creare delle vere e proprie fiabe.

domenica 19 ottobre 2025

Un'edizione bellissima per un autore misconosciuto: Il grande Dio Pan di Arthur Machen da Ippocampo edizioni

Settantasei anni dopo la pubblicazione di Frankenstein, Arthur Machen pubblicava Il grande dio Pan, insieme al piccolo racconto La luce interiore.


Si tratta di due testi incredibilmente simili, che hanno per protagonista donne misteriose, dai comportamenti e dagli sguardi fuori dal comune e un ambiente intorno scientifico che molto rimanda a quel dottor Frankenstein che sperimentata nel suo laboratorio il confine fra vita e morte.

Il grande Dio Pan è un racconto più ricco e sviluppato, anche se in più momenti del tempo: una presenza accompagna ogni capitolo del libro, pur prendendo forme diverse e il lettore deve arrivare alla fine della storia per poter mettere insieme tutti i pezzi.
L'introduzione a questa mini raccolta di due scritti nel volume edito da L'Ippocampo è doppia: quella dell'autore, scritta in occasione del ventiduesimo anniversario dell'opera, e quella di Guillermo del Toro.

L'edizione offre inoltre ventisei tavole illustrate dall'artista paraguayano Samuel Araya e altri tre racconti: La storia del sigillo nero e La storia della polvere bianca, tratte da I tre impostori, raccolta introdotta nientemeno che da Jorge Luis Borges, e La piramide di fuoco. Al termine del volume è posta la postfazione di S.T. Joshi.
La storia della polvere bianca somiglia ai primi due di questa raccolta, mentre La storia del sigillo nero e La piramide di fuoco sono incentrate su un tipo molto particolare di leggende del folklore britannico, sul piccolo popolo.

Lo stile di Machen è molto suggestivo: tanto quanto è preciso nelle descrizioni di paesaggi, tanto è allusivo nel farti capire cosa si nasconde dietro la storia, senza mai svelarne una realtà concreta e materiale. Credo sia proprio questo tratto ad avermi affascinata tanto e ad avermi fatto apprezzare questi racconti, anche se non sono spavensotosi.

Giudizio: ⭐⭐⭐ 1/2

mercoledì 17 settembre 2025

Il grande romanzo americano per eccellezza, ma non il mio preferito di Steinbeck: Furore

 Il terzo libro che leggo di John Steinbeck, dopo Uomini e topi e La valle dell'Eden, è Furore (Bompiani, 656 pagine), la cui lettura è stata particolarmente piacevole per averla portata avanti in compagnia, elemento di conforto, dato l'alto impatto emotivo di questo romanzo, che l'autore pubblicò nel 1939, portandolo l'anno successivo a vincere il premio Pulitzer.

Anche per via di questo riconoscimento, Furore è considerata l'opera migliore di Steinbeck, per le tematiche e il modo con cui son trattate, a partire dalla struttura e dai personaggi. Non fu, tuttavia, esente da contestazioni da parte dei conservatori, per il contenuto chiaramente politico e anticapitalistico.

Il romanzo copre i cambiamenti socioeconomici di uno spaccato degli Stati Uniti negli anni Trenta e lo fa da due punti di vista, uno generale, che dipinge il quadro di contesto per ogni singolo aspetto della storia e uno incentrato sulla famiglia protagonista, più intimo; uno, dunque, storico e uno personale, umano.

Le due prospettive si alternano nella struttura dei capitoli, proprio in rapporto uno a uno, e credo che ciascuna parte possa sussistere in modo indipendente dall'altra. In futuro, magari quando avrò superato il trauma della prima, mi piacerebbe tentare delle letture "selettive" di una o di entrambe le parti.


Negli anni Trenta alcune zone agricole degli Stati Uniti subirono un notevole impoverimento del suolo, a causa della combinazione di elementi metereologici e tecnologici: tempeste di sabbia si accanirono su terreni già impoveriti dalla non abitudine alla rotazione delle colture e da altre tecniche poco efficaci. Chi viveva di quelle terre si ritrovò prima a venderle per restare come fittavoli e poi a lasciarle, quando le banche decisero di espropriare e di affidare la gestione della terra a chi poteva restituire fertilità ai terreni con tecniche diverse e macchinari più costosi. Capitò, dunque, che moltissimi ex coltivatori del Midwest si spostarono in California, attratti da un'ingannevole pubblicità che garantiva lavoro per tutti e prosperità. Si trattava di una falsa promessa, a discapito di chi pensava di aver lasciato l'inferno, consistente nella perdita delle possibilità di mantenere la propria famiglia, per il paradiso. I proprietari terrieri californiani, infatti, colsero al volo l'occasione di una grande quantità di manodopera nullatenente e disperata per potersi permettere salari da fame: nessun lavoro a lungo termine, nessuna possibilità di stabilizzarsi, solo una concorrenza spietata fra poveri, disposti ad accettare qualsiasi paga, sempre più bassa, pur di accaparrarsi un impiego anche a giornata, ma sufficiente ad acquistare almeno un pasto e procrastinare almeno per un altro po' l'inevitabile.

Steibeck non risparmia nulla: il cinismo di chi ha qualcosa e può permettersi di tiranneggiare, di approfittarsi degli altri, ciecamente convinto che non toccherà mai a lui; la povertà, l'inedia, la fame, la malattia, la disperazione, la morte, la miseria più nera, lo squallore. Ogni aspetto di questo quadro è esaminato e raccontato in dettaglio, addirittura raddoppiato, proprio perché raccontato con entrambi i punti di vista, macroscopico e microscopico. L'autore si prende tutto lo spazio necessario, fino a indugiare quasi in una pornografia del dolore e della miseria. Lo stile di Steinbeck per me si riconferma sublime ed è fluido, cinematografico; le pagine si bevono, eppure nel corso della lettura hanno convissuto in me il bisogno di andare avanti e vedere cosa sarebbe successo e quello di fermarsi e prendere respiro, perché molte parti sono così crude da essere dolorose, ostiche.

La storia della famiglia Joad si inserisce in questo quadro: sono una delle migliaia di famiglie che perde la propria terra e che decide di partire per la California, esattamente nel momento in cui il secondogenito della famiglia, Tom, esce di prigione sulla parola per tornare a casa. I Joad intraprendono un viaggio difficile e faticoso, con pochi averi e pochi soldi, dopo aver venduto o abbandonato le loro cose e aver cercato di non farsi truffare troppo per acquistare un mezzo di trasporto. Condividono il destino di migliaia di altri sfollati, disperati e senza niente salvo la dignità e capaci di strappare momenti di emozione al lettore. Il viaggio dall'Oklahoma alla California occupa quasi metà del romanzo e, non appena la famiglia arriva, il lettore pensa di poter tirare un sospiro di sollievo, ma sta per scivolare in un abisso ben peggiore, fatto di discriminazione, sfruttamento e odio. Gli Okie, come sono dispregiativamente chiamati, subiscono ogni possibile angheria, fino a perdere tutto, dalla dignità alla possibilità di sfamarsi.

Steinbeck ci fa immedesimare in tutto questo attraverso gli straordinari membri della famiglia Joad: secondo me sono proprio i personaggi il punto di forza di questo romanzo e degli altri scritti che ho letto dell'autore. Ancora una volta lo scrittore riesce a svelarci la loro anima con pochi tratti di penna, mostrandoci come si esprimono, come sentono, come interagiscono con gli altri, e poi approfondendoli con cura e tempo nel corso della storia. Persino i personaggi secondari sono raccontati con maestria.

Tom, personaggio nevralgico, anche se è la famiglia, coralmente, la protagonista, è la guida dei suoi, il più lungimirante e avveduto, il meno abbindolabile, probabilmente in virtù del periodo scontato in carcere e dell'esperienza maturata. Tom è il preferito di Ma', la grande matrona che tira avanti la famiglia. Madre e figlio si somigliano in questo: sono pratici, disincantati, ma anche consapevoli di cosa occorre per portare a casa il pane e la buccia: tenere insieme la famiglia. Ma' è forte, solida, si rimbocca le maniche, si dà da fare e non perde mai di vista quali sono le cose giuste da fare, mentre Tom è tormentato e gli ribolle sotto la pelle l'ingiustizia e l'indignazione che anche il lettore prova nella lettura. L'incontro con l'ex predicatore Casy (personaggio carismatico, il cui arco narrativo non mi ha soddisfatta del tutto) e le storture a cui assiste e che subisce lo porteranno a un'idea, un'idea che si sente maturare per tutto il romanzo (obiettivo e motore ultimo di questa storia), non solo in lui, ma in molti discorsi dei personaggi, proprio nell'ambiente che circonda la famiglia: quella di una comunità da riunire per portare avanti la lotta contro un sistema marcio che li definisce "rossi", quando in realtà sono solo persone che vogliono vivere, esattamente come chi li opprime.

Gli altri membri della famiglia, secondo me, sono meno caratterizzati (Pa', Al, Noah, Nonno, Nonna e i piccoli Ruth e Winfield), anche se le loro emozioni sono sempre rappresentate in modo molto preciso, percepibile; fanno eccezione Rosasharn, per la quale ho costantemente provato un senso di fastidio, ma che ha una fetta importante di storia, e zio John, sul quale i riflettori sono poco puntati, ma che, per me, buca la pagina con la sua storia.

In conclusione, ritengo questo romanzo un capolavoro, per il suo valore oggettivo, storico, stilistico e politico; sono stata davvero incantata dai personaggi e dalla storia, che non riuscivo a smettere di leggere, anche se (o proprio perché) mi ha fatta soffrire in certi momenti, ma non l'ho amato come le altre due opere di Steinbeck che ho letto. 

Perché? Credo perché l'ho sentito più politico che umano: ciò che lo rende grande oggettivamente, l'affresco storico e sociale che è, prevale (anche se di poco) sull'aspetto intimamente drammatico. Non c'è quell'obiettivo così marcato in Uomini e topi e il focus de La valle dell'Eden è la lotta tra bene e male che risiede in ciascuno di noi: il dramma personale è maggiormente al centro ed è per questa ragione che li preferisco, pur trovando Furore scritto magistralmente. In particolare, trovo che, tra questi tre, il miglior romanzo di Steinbeck sia La valle dell'Eden, che arriva coi personaggi creati a un livello di approfondimento e complessità eccellenti. Sicuramente leggerò altre opere dell'autore per vedere se qualcuna può rubarne il posto, ma lo ritengo improbabile.

Ho anche trovato eccessiva la ridondanza di dolore a cui il lettore è costantemente esposto, arrivando in certi momenti a percepirlo affettato (a differenza della crudità nuda, mai tendente al patetismo, sebbene molto spinta, di una Oriana Fallaci in Insciallah o in Un uomo).

Giudizio: ⭐⭐⭐⭐1/2

Aldo Cazzullo racconta la Grande Guerra dei nostri nonni

 Il giornalista Aldo Cazzullo nel 2014 pubblica con Mondadori (248 pag) La guerra dei nostri nonni. 1915-1918: storie di uomini, donne, famiglie.


Attraverso diari, lettere, giornali, circolari dell'epoca e, persino, interviste e testimonianze, comprese i ricordi dei discendenti, l'autore ripercorre i principali aspetti umani della Grande Guerra: non i fatti in ordine cronologico, ma spaccati che approfondiscono aspetti specifici della vita al fronte e a casa.

Cazzullo ci racconta le condizioni di vita in trincea, le decimazioni, la gestione sotto Cadorna e quella sotto Diaz, quali erano gli svaghi al fronte e le cause di morte, come erano considerati i militari nell'opinione pubblica, dai generali e cosa invece emergeva dai documenti personali dei soldati.

Soprattutto ci descrive i protagonisti del conflitto: non solo ufficiali e soldati semplici, manche le donne, crocerossine, combattenti, lavoratrici; gli alpini, persino gli animali.

Il saggio è diviso in una ventina di piccoli capitoli, scritti in modo chiaro e semplice, di facile accesso per qualunque lettore. Alcuni affrontano tematiche più crude e impegnative, ma uno tira l'altro.

Giudizio: ⭐⭐⭐


Il mio primo approccio a Borges è stato un disastro

 Avevo aspettative altissime sulla narrativa di Jorge Luis Borges, ma errate, fondate su una convinzione generata dall'accostamento del suo nome a quello di Italo Calvino.

Non credo ci possano essere due prose tanto diverse o, perlomeno, questa è l'impressione che ne ho ricavata leggendo la mia prima raccolta di racconti dell'autore argentino, L'Aleph (Feltrinelli, 192 pagine scritte molto grandi, almeno dal confronto fatto col romanzo finito di leggere poco prima, Cucinare un orso, edito da Iperborea).


I racconti sono brevi, alcuni davvero brevissimi, e mi hanno lasciata spiazzata, soprattutto i primi, che sembravano interrompersi prima che io fossi entrata nella vicenda. I fatti sono molto circostanziati. Dopo qualche racconto mi sono abituata un po' al modo di raccontare dell'autore, che ha una prosa elegante, essenziale, ma precisa, che a me, tuttavia, è soprattutto sembrata asettica, distaccata, a tratti un mero resoconto. Ce ne sono alcuni così "abbozzati", così poco dipanati, che mi sono sembrati fatti buttati sulla pagina, quasi come una cronaca da enciclopedia che non si addentra fino al cuore della vicenda, quali per esempio Il morto o Biografia di Tadeo Isidoro Cruz. Sono rimasta interdetta e non mi hanno lasciato niente: non mi sono rimasti impressi, né mi hanno detto niente. Altri racconti hanno solleticato la mia curiosità, invece, per le suggestioni proposte: per esempio I teologi o Emma Zunz; il racconto L'altra morte, poi, l'ho trovato davvero geniale.

I racconti sono infarciti di riferimenti colti o religiosi. L'autore dichiara in prefazione che, salvo due, si tratta di parti della propria fantasia, ma, a mio avviso, non ha le caratteristiche di una narrazione fantastica: non aspettatevi l'assurdo di Calvino, le descrizioni colorite, gli approfondimenti emotivi. L'idea che mi sono fatta è che queste poche pagine siano riflessioni, il pretesto dell'autore per soffermarsi su un tema, su un'idea, da sviscerare, un là per sé e per il lettore per vedere un certo punto di vista, un nuovo aspetto di qualcosa.

La maggior parte dei racconti mi ha lasciata indifferente, quasi perplessa: non mi sono mai sentita coinvolta o appassionata, così che la lettura alla fine non è stata un piacere, anche se non si può parlare di fatica perché le pagine sono davvero poche per ciascun racconto.

Giudizio: non posso davvero dire che mi siano piaciuti, tranne L'altra morte. ⭐⭐

lunedì 8 settembre 2025

Un regalo per tutti coloro che hanno amato La mia famiglia e altri animali

Conoscete Gerry, Leslie, Larry, Margot e mamma Durrell?
No?
Allora finora vi siete fatti un grandissimo torto.

Gerald Durrell è un famoso naturalista inglese, che ha passato la vita a studiare le specie animali e anche a cercare di preservarle; ma soprattutto, è uno scrittore dallo spiccato senso comico che ha trascorso parte dell'infanzia sull'isola di Corfù con la sua famiglia, riportandone le gesta nel romanzo La mia famiglia e altri animali (Adelphi, 368 pag).
Aver letto quest'estate L'isola degli animali (Neri Pozza, 283 pag, il cui titolo inglese, Birds, Beasts and Relatives, rende meglio l'idea) mi dà l'opportunità di parlare di entrambi i romanzi, dal momento che il secondo non è che una raccolta di capitoli bonus: avventure extra, ambientate nello stesso periodo temporale del primo, sicuramente invocate a gran voce dai lettori e di facile guadagno dopo che La mia famiglia e altri animali aveva riscosso tanto successo.


Entrambi i romanzi iniziano con una discussione in famiglia davanti al camino: nel primo libro per convincere mamma Durrell a trasferirsi in un paese meno umido, magari la Grecia, magari L'isola di Corfù. Ne L'isola degli animali, invece, il momento di raccoglimento familiare consente a Gerry di annunciare ai suoi che sta per pubblicare ulteriori episodi sparsi (esilaranti e non dignitosi) del periodo da loro vissuto sull'isola. Non si tratta quindi di un sequel.
Sull'isola la famiglia cambia case, cerca di ambientarsi tra la gente del posto, impara a poco a poco il greco e conosce Spyro, fin da subito il loro factotum, protettore, portafortuna. 
Durrell alterna le strampalate avventure della famiglia alle descrizioni dell'isola, dell'ambiente e della sua passione: la zoologia. Il piccolo Gerry, tra un maestro e l'altro, esplora e annota meticolosamente ogni dettaglio degli animali che incontra e ogni comportamento. 
La convivenza di Gerry con i parenti e dei parenti con gli animali che il bambino si porta a casa è costellata di episodi esilaranti di malintesi, incidenti prevedibili, idiosincrasie dei familiari o delle bestiole.

Durrell ha uno stile estremamente divertente, umoristico, sottile; è molto abile come descrittore sia di paesaggi, sia di situazioni. Anche i personaggi risultano vitali, reali, caratterizzati dalle proprie personalità tanto da poterne quasi prevedere il comportamento. 
La mia famiglia e altri animali, ma anche L'isola degli animali, che sostanzialmente è lo stesso unico romanzo, sono tra i romanzi che mi hanno divertita di più nella mia storia da lettrice e li consiglio spassionatamente a chiunque voglia una lettura leggera e appassionante.

Giudizio: ⭐️⭐️⭐️⭐️ 1/2

Un ottimo romanzo brasiliano sui crimini d'odio, ma non un vero giallo: Il crimine del buon nazista

 Il crimine del buon nazista (Sellerio, 196 pag) di Samir Machado de Machado è il primo giallo, ma anche romanzo in generale, brasiliano che leggo.

L'autore è nostro contemporaneo, ma l'ambientazione della storia è il 1933. Uno Zeppelin tedesco sorvola i cieli brasiliani e a bordo sta la crème de la crème della società nazista (e non) dell'epoca, dal pilota, celebre, ma totalmente contrario al nuovo regime, al funzionario di polizia, Bruno Bruckner, che verrà presto distolto dal suo rilassante viaggio per l'occorrere di un evento delittuoso.


Uno dei passeggeri è infatti ritrovato senza vita nel bagno del dirigibile, al mattino successivo al suo imbarco. La sera prima aveva cenato con altre quattro persone: un medico nazista che compie esperimenti di eugenetica, una snobissima baronessa, un giovanotto inglese di bell'aspetto e dalla lingua pungente e, infine, proprio il poliziotto. L'identità della vittima è dubbia, forse è ebreo, forse omosessuale e potrebbe dunque trattarsi di un crimine di odio.

Il mistery parte in modo classico: scena ristretta ai convitati del pasto, indagini tradizionali, interrogatori di rito e ambientazione che non può che rimandare ai grandi romanzi della Christie che si svolgono su mezzi di trasporto "chiusi" (treno, battello, aereo...); tuttavia la narrazione non è del tutto affidabile, riserva qualche sorpresa e non sono presenti, a mio avviso, tutti gli elementi necessari per capire chi è il colpevole.

Soprattutto, ritengo questo, dato il finale, non un vero giallo, ma proprio un pretesto per parlare di un tema molto preciso, ossia la condizione delle persone omosessuali nella Germania nazista.

Il romanzo è scritto benissimo, molto scorrevole, con un buon lessico e mi è piaciuto molto, ma come romanzo piuttosto che come giallo. Da questo punto di vista sono rimasta un po' scontenta, ma compensa tantissimo con una scrittura davvero piacevole.

Giudizio: ⭐⭐⭐⭐

venerdì 22 agosto 2025

Un incantevole aprile: leggero ma non senza riflessioni

Quattro diversissime donne sono le protagoniste di Un incantevole aprile (Bollati Boringhieri, 272 pag) di Elizabeth von Armin, da cui è stato tratto nel 1991 un film da Mike Newell con Joan Plowright, Alfred Molina, Jim Broadbent, Polly Walker.


Una donna particolare, Mrs Lottie Wilkins, è depressa e sottomessa al marito, avvocato noto: non riesce a brillare, a farsi apprezzare, forse neanche a essere sé stessa. Quando legge sul giornale l'annuncio di un affitto in un castello sulla costa ligure, non può fare a meno di fantasticare, di pensare a come sarebbe bello soggiornarci un mese. Ha i suoi risparmi da parte, ma...certo non può permettersi quella spesa da sola.
Quando vede la signora Rose Arbuthnot, pia, devota ai poveri e alla Chiesa e portatrice di un segreto sul lavoro del marito e sul suo matrimonio, le chiede di dividere con lei la spesa per quella vacaza.
Le due donne possono permettersi una parte del viaggio, ma per rientrare del tutto nelle spese provano a cercare altre due coinquiline, che trovano nella bellissima e popolare Lady Caroline e nella nostalgica signora Fisher. 

«Ma vedete, il paradiso non è altrove. [...] Le affinità tra il paradiso e la nostra dimora, - continuò Mrs Arbuthnot, abituata a concludere le frasi. - Il paradiso è nella nostra dimora».
«Non è vero», disse Mrs Wilkins, ancora una volta inaspettatamente.

 

Disse ad alta voce e con serietà: «Non capisco per quale motivo insistiate a sostenere che non sono felice, quando mi conoscerete meglio vi renderete conto che lo sono; e credo non intendiate davvero affermare che la bontà, se fosse concesso di raggiungerla, rende infelici».
«Certo che intendo quello, - disse Mrs Wilkins, - perlomeno il nostro genere di bontà. Noi l'abbiamo raggiunta, e siamo infelici. Esiste un genere di bontà infelice e uno felice: al castello medioevale, per esempio, ci toccherà quello felice»

La convivenza delle quattro donne non inizia in modo facile: sono quattro sconosciute con idee diverse e bisogni diversi, ma gradualmente cominciano a piacersi e a interessarsi delle vicende delle altre; in particolare Lottie, che all'inizio è scambiata per una persona strana, emerge dall'ombra, entra nel suo elemento. Del quartetto è la prima a rendersi conto, intuitivamente, che quella villa, quella vacanza, è in grado di cambiarle, di portare pace e soluzione ai turbamenti delle loro anime.

La prima parte del romanzo è quella che ho preferito: la conoscenza e il primo periodo delle quattro donne nel castello; nella seconda parte entrano in ballo intrecci di relazioni che mi sono piaciute meno.

Il romanzo è un piacevole intrattenimento, ma offre anche la possibilità di riflettere sulla differenza fra chi si deve essere e chi si sente di essere, sulle convenzioni sociali, sull'amicizia e sull'opportunità di gratificarsi, anche se (forse oggi come allora) pare sconveniente concedersi un piacere a beneficio solo di sé stessi, trascurando qualche più nobile, ma altrui, causa.

Bonus: nella mia edizione è compreso il breve racconto Il giardino delle rose. Mi è piaciuto molto e traspare già nelle poche pagine sia il sarcasmo nel denunciare la situazione sia l'attenzione di von Armin per la condizione della donna in età da marito. Vedove e uomini hanno il potere di disporre per sé e per gli altri, ma per una giovane donna, non madre, la sua vita non è libera: è alla madre o al marito che deve tutta la sua disponibilità e coltivare un desiderio (che sia la vacanza in un castello medioevale o un giardino pieno di rose) è proibito, sinonimo di egoismo e ingratitudine che la rende agli occhi del vicinato uno strano essere, non conforme alle convenzioni.

Giudizio: ho preferito la parte in cui si pone l'accento sul senso di colpa relativo al viaggio che agli intrecci amorosi, ma è una lettura gradevole e intelligente ⭐⭐⭐